Home Attualita “Mostrando il bello possiamo incontrarci e cambiare il mondo”

“Mostrando il bello possiamo incontrarci e cambiare il mondo”

Oltre cento uditori, nel teatrino di San Girolamo per Un incontro umano imprevisto. La scoperta che l’altro è un bene

Wael Farouq, egiziano musulmano docente di lingua e letteratura araba, ha testimoniato la sua amicizia con Rimini, il Meeting e il mondo cristiano

Un incontro casuale, imprevisto, spesso fragile.

Può sembrare poco di fronte a tutto quello che negli ultimi mesi sta scuotendo il nostro mondo. Eppure a volte quanto di bello, vero e buono possiamo desiderare per le nostre vite parte proprio da un incontro così.

Un incontro umano imprevisto. La scoperta che l’altro è un bene è il tema del dialogo proposto qualche sera fa dalla parrocchia di San Girolamo con Wael Farouq, egiziano, musulmano, docente di lingua e letteratura araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Cosa le è successo incontrando degli amici cristiani? Come ha scoperto che l’altro è un bene?

“L’incontro l’ho fatto 24 anni fa, al Cairo”, ricorda Farouq.

“E ogni volta che lo racconto, in contesti diversi, genera qualcosa di nuovo. Scopro qualcosa che non avevo mai capito prima”. Per esempio, “ con quello che succede oggi in Medio Oriente mi sento di essere fortunato perché anch’io senza quell’incontro, sarei potuto essere tra le persone che trovano nella violenza l’unica strada per riempire il vuoto”.

È un’affermazione forte, proprio in questi giorni. Ha origini lontane. Ha a che fare con il fallimento delle ideologie, quelle del mondo occidentale e di quello orientale.

Cosa hanno generato culturalmente i crolli del comunismo, con la distruzione del muro di Berlino, e del panarabismo nazionalista, o l’affermazione della fisica quantistica?

“Succede che cadono le grandi narrazioni. Cade qualsiasi teoria che cerca di rispondere alle domande essenziali dell’uomo: chi siamo, cosa significa la nostra vita? Dove andiamo? Cosa c’è dopo la morte?

La fine di queste grandi narrazioni, la fine delle teorie sull’appartenenza e sul significato della vita, è qualcosa che ho vissuto sulla mia pelle. Nel Novanta avevo 16 anni. Di fronte a tutto il male che vedevano i miei occhi, ho creduto che il nulla fosse l’unica possibile verità. Il contesto, ferito da violenza e guerre, è simile a quello attuale”.

Cosa è accaduto dopo?

“Ho iniziato a frequentare l’università, io amo la cultura.

Ho studiato letteratura cercando di essere sempre il primo della mia classe. Poi ho iniziato a insegnare in vari istituti accademici. Ho cercato di farlo bene perché a me piace, non pensando però che questo potesse avere un significato. E quando incontravo qualcuno che credeva in un ideale sentivo il dovere di fargli capire che l’ideale non esisteva”.

Lei ha sempre vissuto in rapporto con la comunità cristiana presente nel suo Paese ed è amico di tanti cattolici ed ebrei. Ma l’incontro è stato diverso. Quando le cose cambiano? Perché è possibile superare la posizione nichilista?

“Un giorno ho incontrato un membro dei memores domini (associazione laicale cattolica nata nel movimento di Comunione e Liberazione, ndr). Era diverso dallo stereotipo dell’italiano e dell’occidentale che abbiamo nel mondo arabo. L’italiano è un uomo elegante, beve vino, mangia bene, frequenta belle donne… Questo ragazzo no… non beve il vino, non mangia carne, non fa caso a come veste… non ha una fidanzata. Nel gruppo di amici con cui ci vedevamo insieme abbiamo iniziato a chiamarlo ‘il prefetto musulmano’”.

Non era affascinante come un italiano. Eppure qualcosa di quella persona la ha colpita. Può farci capire cosa?

“Possedeva una qualità straordinaria che secondo me non appartiene a un’ideologia o ad una grande narrazione. Arriva da un’esperienza. Mi ha colpito la sua capacità di vedere sempre il lato bello delle cose.

Mi ha messo in difficoltà. Se uno ti apre gli occhi permettendoti di vedere una cosa bella, come puoi negarla? Come puoi dire non è vero? Se uno ti ama veramente, come puoi negare questo amore? Questo sguardo che riesce a vedere il bello, questa fede, genera

la certezza che Dio è totalmente presente anche nei cuori di quelli che negano la sua presenza. Con lui ho scoperto che il bello non è lo straordinario, è l’ordinario velato dall’abitudine. Ho sperimentato uno sguardo che non dà una risposta, ma genera una domanda. La domanda invita a una verifica, questa verifica fa crescere il cuore. Questo è il percorso che ho fatto, seguendo il suo richiamo a una presenza”.

Come si arriva da qui a dire che l’altro è un bene?

“Quest’incontro mi ha aiutato a scoprire la mia identità, chi sono, e mi ha spinto a creare ponti. Io credo che l’altro è un bene, ma questo accade a ognuno solo approfondendo la propria identità. Vivere la propria identità e non una teoria: questa è l’unica strada per incontrare l’altro. Essere pienamente cristiano è la strada per incontrare davvero un musulmano, molto più che mettersi a studiare la sua religione. Cosa che spesso sento dire da cristiani ‘buonisti’”.

Può fare un esempio un po’ più concreto? Può esistere un luogo nel mondo dove ciò accade?

“A Rimini c’è un gigante in questo. Quando qualcuno incontra una cosa vera, e ne capisce l’importanza, fa di tutto per farla vedere a tutti. Si chiama testimonianza.

Se si incontra la bellezza, non si può far altro che testimoniare questa bellezza. Per questo dopo essere venuto al Meeting la prima volta, ho voluto tornarci ancora e portare ogni anno con me un nuovo amico per farglielo vedere. Ma di questo passo, per farlo vedere a tutti i miei amici non mi sarebbero bastati 100 anni. Così è nata l’idea di fare una presentazione del Meeting al Cairo”.

Sappiamo che c’è riuscito, nel 2010 al Cairo. Com’è andata?

“Ricevuta la disponibilità da parte della Fondazione, sono tornato al Cairo per iniziare a organizzare. Ho subito prenotato un’aula nell’università dove insegnavo all’epoca. Poi mi sono detto che la cosa più bella che io ho sempre visto al Meeting è la libertà dei volontari.

Desideravo mostrarla. Ho cominciato a girare per i centri culturali, l’università, vari club, per presentare il Meeting e per chiedere volontari. Ci ho lavorato tre mesi. Non solo al Cairo, anche ad Alessandria. Ho invitato tanta gente, sperando che si presentassero in 15. Sono arrivati quasi 100 ragazzi. Non riuscivo a crederci”.

C’era però un problema da risolvere…

“Si erano divisi in gruppi: quelli dell’Università americana del Cairo in un angolo, quelli della Chiesa copta ortodossa in un altro angolo, gli studenti di al Azar in un altro angolo ancora. Allora, andando sul pratico, ho detto: chi può guidare una macchina? Chi è bravo con l’informatica? Chi sa le lingue? Ho creato nuovi gruppi sulle basi dei loro interessi e bravura. Ed è successo che nonostante la distanza sociale, culturale e religiosa sono tutti diventati amici. La gente poteva vedere una ragazza con il velo accanto a un’altra con la minigonna, un ragazzo con la barba accanto a un ragazzo con la croce. Si stupiva, si domandava chi fossimo. Sono caduti tutti i muri. In Italia è nato un gruppo di ragazzi musulmani e cristiani. Si chiama Swap e insieme fanno cose bellissime”.

Quindi qual è la strada per il dialogo?

“Questa esperienza di incontro e la testimonianza sono l’unica strada. Pensiamo alla guerra: cosa posso fare io per fermarla, cosa puoi fare tu? Cosa possiamo fare tutti noi? Niente. Ma noi possiamo cambiare il mondo con la nostra testimonianza. Siamo chiamati a testimoniare la verità che abbiamo incontrato. Non fermeremo una guerra, ma possiamo cambiare il percorso di vita di una persona, come è successo a me. E quindi, così, cambiare il mondo. Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”, conclude Farouq citando uno dei titoli delle passate edizioni del Meeting.