Il viaggio è nato da un incontro a casa di Sheikh Abdo, il siriano ospite della comunità parrocchiale di Santarcangelo. Con un gruppo di volontari della Colomba si preparava l’incontro di Sheikh Abdo con il presidente Mattarella. “Quasi in contemporanea – ci dice don Andrea Turchini – l’idea è venuta a me e ad Alberto Capannini. Ed ho deciso subito di partire con lui per il Libano. Le cose belle prima si fanno e poi si pensano, diceva don Oreste”.
Un viaggio di pochi giorni per conoscere direttamente il campo profughi siriano dove viveva Sheikh Abdo ed il lavoro di Operazione Colomba in quel contesto.
Don Andrea, cosa ti ha colpito ad un primo impatto?
“La prima esperienza che ho fatto è stata quella di una grande accoglienza ricevuta da tutti. Dai volontari della Colomba presenti in Libano e dalla gente che abbiamo incontrato nei giorni della mia permanenza là. Essere accolti fa bene al cuore quando sei in un paese straniero, in un contesto in cui ‘non sei a casa’. L’accoglienza è ciò che ti consente di non considerarti un estraneo, ma di essere riconosciuto come persona. Fare l’esperienza di essere accolto favorisce l’accoglienza di altri. Forse se facciamo così fatica ad accogliere è perché noi per primi non abbiamo mai fatto l’esperienza di essere stati accolti e percepiamo la vita come il risultato di una serie di sforzi che ci siamo guadagnati da soli; questa percezione ci porta sulla difensiva, ma ci rende meno umani”.
Quale clima si respira nel campo profughi?
“Un fiume di dolore mi è passato di fronte in questi pochi giorni ed è il fiume di dolore in cui le volontarie e i volontari della Colomba hanno scelto di immergersi condividendo la vita del campo profughi. Io, non comprendendo la lingua, l’ho solamente intuito dagli sguardi e dalle lacrime. Il dolore è acuito da una parola che mi ha ferito intimamente: ‘la yujad amal – non c’è speranza!’. Il freddo, le malattie, il ricordo dei propri cari uccisi o arrestati, i traumi della tortura subita da molti uomini, la lontananza dalla propria terra e il vivere da stranieri in un’altra terra, i debiti contratti per la sopravvivenza, … tutto questo sarebbe forse più sopportabile se ci fosse speranza. Ma non c’è speranza!”.
Ma ora che la guerra in Siria è quasi conclusa non potrebbero tornare?
“Non si può ritornare perché è pericoloso: gli uomini e i ragazzi maschi sono considerati tutti disertori; ritornare significherebbe essere arrestati, torturati e poi inviati a combattere. Non si riesce ad uscire dal Libano perché i corridoi umanitari funzionano con il contagocce e patiscono lunghe pratiche burocratiche con passaggi che si possono bloccare in ogni momento anche per delle banalità. E così rimane il dolore di una sofferenza che non si placa e che viene condivisa con dignità, ma anche in tutta la sua realtà”.
Perché i volontari della Colomba vivono in tenda in condizioni inaccettabili e anche disumane? Non potrebbero aiutare quella gente vivendo in una situazione più confortevole?
“Se fossero una delle ONG che opera sul territorio l’osservazione sarebbe pertinente, ma – da quanto ho capito – i volontari e le volontarie della Colomba non sono lì solo per aiutare o risolvere problemi, ma per condividere la condizione di vita dei profughi, facendosi loro vicini proprio in quelle condizioni in cui nessuno dovrebbe vivere. Condividere volontariamente situazioni di estrema precarietà e miseria con coloro che sono stati costretti a viverci dalla logica della violenza, è il primo segno di speranza che viene portato a chi è vittima della guerra. È come dire: non ci siamo dimenticati di voi! Riconosciamo la vostra dignità e veniamo a condividere la vostra vita. Come recita il Manifesto della Operazione Colomba: «Vivere con chi vive nella guerra è l’inizio della nonviolenza e il nostro segreto». In termini efficientistici tale scelta è del tutto improduttiva: non serve a nulla è totalmente gratuita. Ma nella logica del gratuito e riconoscendo il valore dell’inutile, la condivisione è una grande testimonianza di prossimità e del valore delle relazioni”.
D’accordo la testimonianza, ma se la realtà non cambia…
“C’è un sogno che sostiene l’impegno quotidiano dei volontari della Colomba e di molti siriani con loro; è un sogno condiviso con tanti profughi che vivono nei campi. Questo sogno è la proposta di pace per la Siria, scritta da chi ama la Siria e non da chi ha interessi sulla Siria. Questa proposta è un sogno che apre alla speranza, quella che nella vita ordinaria dei profughi non c’è più, uccisa spesso dalle umiliazioni e dalla mancanza di scappatoie nella situazioni in cui si trovano. La proposta di pace è il segno potente che testimonia la reazione alla rassegnazione e alla logica della sopravvivenza ed è per questo che va diffusa e sostenuta anche in Italia”.
La proposta è bella, ma considerando le potenze in campo l’iniziativa sembra ingenua…
“Certo, cinicamente e anche concretamente si potrebbe pensare che sia ingenua; che sia lontana dalle logiche di potere secondo cui le potenze del mondo determinano i destini dei popoli, … ma la storia ci insegna che il potere del sogno è quello di aiutare ad intravvedere ciò che non c’è, ma che – lottando in modo nonviolento – può diventare possibile. Martin Luther King, in quel famoso discorso tenuto a Washington DC, di fronte al Lincoln Memorial, ha iniziato proprio così: «I have a dream». Lui non ha visto la realizzazione di quel sogno perché è stato ucciso, ma quel sogno è divenuto realtà, una realtà perfettibile, ma senz’altro più concreta di quando lui, nel 1963 ha pronunciato quelle parole”.
Un ricordo bello che hai portato a casa…
“Donne con la gonna. È un’espressione che ho imparato in Libano, osservando con ammirazione la forza di tante donne incontrate là: le volontarie della Colomba per prime, ma anche le tante madri e mogli che portano avanti con intraprendenza e dignità la situazione della loro famiglia in mezzo a difficoltà quotidiane. Donne forti che non hanno rinunciato affatto alla loro femminilità, ma la valorizzano per portare qualcosa di nuovo e creativo. Il sogno è l’inizio di ogni cambiamento.
Mi ha molto commosso vedere che ad una coppia di mamme molto povere, le volontarie – di ritorno da un viaggio in Siria – hanno portato dell’hennè per tingere i capelli. Qualcuno potrebbe dire: ma come?! Con tante necessità ed emergenze perché sprecare del denaro per una cosa effimera? Eppure la luce che si è accesa negli occhi di quelle donne che – posso garantire – non sono per nulla vanesie, è stata una luce di riconoscenza per chi ha riconosciuto la loro femminilità”.