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Danni collaterali

di Giovanni Tonelli

Quante sono le guerre oggi nel mondo?

Una delle organizzazioni indipendenti che aggiorna il database della guerra mondiale a pezzi con più regolarità è l’Armed conflict location & event data project – Acled che afferma che nel mondo si registrano eventi conflittuali in 161 Paesi. Nel dettaglio, sono 50 i Paesi con indici di conflitto estremi, elevati o turbolenti. Il Messico, ad esempio, combatte dal 2006 contro i cartelli della droga e nel 2023 ha registrato più di 7.000 morti. È guerra quella che si svolge in Nigeria dal 2009 e in cui, in un solo anno, sono morte più di 8.500 persone. Sono guerre quelle in Siria (6.000 morti nel 2023), in Iraq (quasi 1.500 vittime), nello Yemen (3.481 morti), nella regione del Tigrai, in Etiopia (3.600 vittime). L’Afghanistan poi è in guerra dagli anni Settanta, con milioni di vittime. Ci sono le guerre “a bassa intensità”, come il conflitto tra Pakistan e India per la regione del Kashmir (2.311 vittime tra 2022 e 2023) o quello in Sudan (più di 12mila morti).

E ancora: Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Mozambico. E poi c’è la guerra in Ucraina, cominciata il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa. E ancora il conflitto palestinese- israeliano riesploso in tutta la sua violenza.

Tutte le guerre rappresentano un punto morto nella storia dei popoli, una sconfitta per l’umanità intera. Se perdiamo questa consapevolezza il rischio è di assuefarci all’idea della normalità della guerra o della sua inevitabilità, come strada ineluttabile per risolvere i conflitti fra i popoli. La guerra è sempre una sconfitta per tutti.

Quando c’è un conflitto a farne le spese è la gente comune di entrambe le parti, vittime sacrificali dei giochi di potere altrui. E oggi, in ognuna di queste guerre, pare che tutte le parti abbiano accettato che i civili siano “sacrificabili”, diventino semplicemente “danni collaterali” di una violenza che – di fatto – infrange il principio base del diritto umanitario internazionale che protegge la popolazione inerme per evitare innumerevoli morti, come poi invece accade.

Del resto è parte della propaganda delle realtà in conflitto il tentativo di disumanizzare il nemico,senza troppi distinguo, una vecchia tattica conosciuta, che tende a generalizzare le responsabilità al punto che anche minori, donne e anziani diventano colpevoli e meritano di essere puniti.

Armi che non sparano, ma che alimentano una spirale di odio, deresponsabilizzano nelle atrocità compiute, aumentano una scia di sofferenze che allontana sempre di più la pace.

Come uomini e come cristiani dobbiamo smascherare queste narrazioni ogni volta che ce le troviamo davanti, siano del conflitto israeliano- palestinese, di quello russo-ucraino o di quello con i vicini di casa. Occorre costruire una cultura che sappia guardare all’avversario, all’interlocutore, al vicino riconoscendo tutte le sfumature della sua personalità (positive o negative), senza sfigurarlo o trasformarlo in un personaggio anonimo, o peggio in un mostro.