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Cosa succede agli USA?

Non respiro”. Sono le parole pronunciate lo scorso 25 maggio da George Perry Floyd, uomo afroamericano di 46 anni, poco prima di perdere la vita su una strada di Minneapolis, mentre veniva arrestato da quattro agenti di polizia. Non ci addentriamo nei particolari della vicenda, perché è compito della giustizia statunitense. Ma è importante raccontarne le conseguenze: la morte di George Floyd è stata ripresa dal cellulare di una passante e il video è diventato virale su Internet in tutta la sua drammaticità. In poche ore quelle immagini hanno fatto il giro del mondo, accendendo la miccia di un’enorme protesta popolare contro l’abuso di potere delle forze dell’ordine e a favore dei diritti degli afroamericani. Proteste che, sul suolo statunitense, diventano sempre più violente ogni giorno che passa. È lecito, dunque, chiedersi: è incredibile ciò che sta accadendo nella cosiddetta Terra delle Libertà? O è una situazione che “era nell’aria”, prevedibile e difficilmente evitabile?

Lo abbiamo chiesto a Stefano Coccia (nella foto) ingegnere riminese che per 13 anni ha vissuto, studiato e lavorato negli USA, e che ha potuto fare esperienza della società americana in prima persona.

Partiamo dall’inizio. Qual è il percorso che l’ha portata negli Stati Uniti?

“Tutto è cominciato con la laurea a Bologna nel 2003, in Ingegneria. L’anno dopo sono partito per San Diego (California), con l’obiettivo di fare un anno di ricerca. Durante quel periodo ho instaurato un buon rapporto con il mio relatore, che mi ha proposto di fermarmi per frequentare un Master: ho accettato e, proseguendo nel percorso, mi è stato offerto di continuare come studente di dottorato (chiamato PhDnegli USA). Un percorso che ho concluso ottenendo il dottorato nel 2007. Quando sono riuscito a ottenere la Carta Verde (che permette a uno straniero di lavorare negli USA) ho deciso di lasciare la carriera accademica: ho sempre avuto amore per la ricerca, però preferivo la possibilità di svolgerla in ambito applicativo, di ricerca e sviluppo, mantenendo una maggiore libertà e con il desiderio di potermi spostare verso l’Europa, avvicinandomi a casa. Così, nel 2011, la mia vita ha avuto un’altra svolta: mi sono sposato con Katie, originaria del Michigan, e ci siamo trasferiti a Los Angeles, dove ho accettato una posizione come Data Scientist (scienziato dei dati) in una delle maggiori compagnie americane che si occupa di pubblicità su Internet”.

E poi il suo desiderio si è avverato: non solo è tornato in Europa, ma proprio nella sua Rimini.

“Sì. Nel 2017 mi sono trasferito a Rimini con la mia famiglia e ad oggi continuo a lavorare per gli Stati Uniti come consulente, applicando tutte le competenze acquisite nel mio percorso. Sono felice di questa scelta e non tornerei indietro, perché a livello culturale ci sono diversi elementi della società americana che ho sempre fatto fatica a digerire. Due su tutti: le armi e la sanità”.

Due elementi di grande attualità negli ultimi mesi. Secondo la sua esperienza, i problemi cui stiamo assistendo negli Stati Uniti sono un qualcosa di straordinario o erano prevedibili?

“Non credo che siamo davanti a un qualcosa di incredibile. Per quello che ho potuto percepire vivendo negli Stati Uniti, la società americana, almeno per quanto riguarda le grandi città e la storia recente, è strutturata in un modo che porta inevitabilmente a polarizzarsi. Il benessere della classe media si sta riducendo, come avviene a livello globale, ma con la differenza che in USA non è raro trovare individui che scelgono di eliminare la copertura medica per ridurre le proprie spese. Tutto questo spinge verso due estremi: da una parte i senzatetto che aumentano sempre di più e dall’altra una classe agiata, cui bisogna aggiungere un’impostazione culturale molto diversa dalla nostra, difficile da concepire per un europeo”.

In che senso?

“Negli Stati Uniti, sebbene le persone siano solitamente gentili e socievoli, la struttura socio-economica spinge verso l’individualismo. Parlando, ad esempio, della sanità: negli USA difficilmente potremo vedere un sistema sanitario pubblico, perché è abbastanza diffusa la mentalità per cui se una persona lavora di più, guadagna di più, perché dovrebbe pagare le cure degli altri? Questo è solo un esempio, ma è emblematico. Se a una società di questo tipo aggiungiamo una crisi come quella della pandemia, un caso di violenza con sfondo razziale dal grande impatto mediatico e un Governo come quello attuale che in tutti gli ambiti ha sempre preferito aumentare i contrasti piuttosto che incentivare il dialogo, capiamo che la situazione era quasi destinata a sfociare in conflitto”.

Il razzismo non è, quindi, così centrale?

“Il razzismo è presente, come purtroppo accade in tutto il mondo. Devo però dire che negli USA gli afroamericani sono molto più integrati rispetto, ad esempio, all’Italia. C’è una forte eterogeneità culturale e c’è molta attenzione nel tutelarla. Parlando delle attuali proteste nei confronti della polizia, credo che gran parte sia da ricondurre all’altro grande problema americano, che ho anticipato: la capillare diffusione delle armi. Gli americani, come impostazione culturale, vedono nelle armi un presidio di libertà.

Non solo verso il prossimo, ma anche in relazione al potere costituito: l’idea è che se un giorno lo Stato non dovesse più tutelare i diritti dei cittadini, grazie alle armi potranno essere i cittadini stessi a farsi giustizia da soli. Non voglio, certamente, giustificare la polizia americana; però in un contesto del genere, in cui potenzialmente chiunque può essere armato, è inevitabile che la polizia abbia protocolli di addestramento e di intervento diversi da quelli delle forze dell’ordine dei Paesi europei. Per intenderci, dunque, credo che le proteste di oggi siano sì legate a un contrasto di tipo razziale, ma sia solo una delle tante possibilità in cui la società americana può sfociare in un conflitto, per il modo in cui è strutturata. Occorrerebbe una migliore gestione della società, che porti a una minore polarizzazione e a un maggiore senso di comunità”.