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A Gaza “nessun posto è sicuro”

“La situazione è molto difficile”. A parlare è Yousef Hamdouna, palestinese di Gaza, operatore della ong riminese Educaid.  “Il nostro Centro per la vita indipendente, creato per le persone con disabilità, si trova (forse dovrei dire trovava) nella zona di Gaza City non accessibile. Abbiamo notizie di danni gravi che avrebbe subìto, sia il centro sia l’ufficio di Educaid. Noi non conosciamo le condizioni reali, perché per conoscerle dovremmo andare a vedere, ma al momento non è possibile. Si tratta di una zona soggetta a bombardamenti e occupata”, spiega Yousef.

Il centro è operativo dal 2019 con una equipe multidisciplinare che aiuta le persone disabili ad aumentare il livello della propria autonomia sia nella vita quotidiana sia nel lavoro. “Ci sono anche dei terapisti occupazionali che studiano gli ausili utilizzati dagli utenti del centro affinché possano essere facilitati nelle loro mansioni”. In meno di cinque anni il centro di aiuto alla vita indipendente ha aiutato mille persone e formato quaranta operatori, anch’essi disabili. “il progetto è innovativo e rappresenta una storia di cooperazione vera e di sviluppo vero”.

Ma adesso, queste persone, dove sono e cosa fanno? “In gran parte sono emigrate a sud e si trovano preso i centri di accoglienza ospitati dalle scuole dell’Unrwa delle Nazioni unite”. L’Unrwa è l’agenzia che fornisce assistenza, protezione e difesa dei diritti a circa 5 milioni di rifugiati palestinesi registrati in Medio Oriente. “Altri sono ospiti di parenti, come la mia famiglia”.

Tuttavia raggiungere il sud, come consigliato dall’esercito israeliano è tutt’altro che semplice e molto pericoloso. “Raggiungere la strada Salah al-Din, un’arteria che taglia la striscia da nord a sud, indicata come sicura dall’esercito israeliano, non è scontato proprio per via dei controlli ma, soprattutto, non è sicuro. Perché bisogna attraversare aree occupate, ci si deve muovere sotto i bombardamenti. Solo qualche giorno fa sono riuscito a mettermi in contatto con un nostro operatore che attraverso molte difficoltà è riuscito a mettersi al riparo con la sua famiglia. Mi ha raccontato soprattutto del disagio nell’attraversare strade piene di persone morte”.

E comunque, “non c’è un posto davvero sicuro, oggi a Gaza. Le statistiche dicono che il 50 per cento delle vittime si trova nella parte sud e quindi non c’è una differenza sinceramente”. Con gli ospedali senza medicine e senza gasolio per far funzionare i macchinari, il numero delle vittime anche collaterali cresce. Con i convogli umanitari che non possono passare per portare acqua potabile e pane, nessuno è escluso dal conflitto. I civili, soprattutto quelli malati e disabili, sono le prime vittime.

Da qualche tempo Yousuf lavora da Rimini, dove è riuscito a portare anche la sua famiglia. A inizio anno le sue figlie hanno iniziato qui la scuola. Ma Yousuf, in parte, quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza lo conosce bene perché lo ha vissuto. Solo in parte, però. “Io ho vissuto a Gaza la crisi del 2021, c’ero nel 2014. Ma una cosa così non l’avevo mi vista. In molti hanno scelto di non mangiare più per dare da mangiare ai figli. La situazione è disperata, stiamo sentendo cose agghiaccianti. Non è mai successo nella storia che a Gaza vengano seppelliti cadaveri senza nome. Nemmeno chi è nei centri di accoglienza è al sicuro, perché vengono bombardati”.

Parole che trovano conferma anche nelle voci degli operatori di Operazione Colomba. “La situazione umanitaria di sopravvivenza all’interno della Striscia di Gaza è drammatica, un vero e propio genocidio”, sottolinea Giammaria (nome di fantasia, altro pezzo in pagina). “Conosciamo delle persone di Gaza con cui siamo in contatto. Lì è terrificante non esistono luoghi sicuri nella Striscia. Anche a sud, conosciamo persone che hanno casa accanto al altre abitazioni che sono state bombardate. Abbiamo scuole e ospedali bombardati, medici, giornalisti e infermieri che vengono quotidianamente uccisi. Il taglio del carburante toglie elettricità, acqua e fa aumentare i prezzi”.

Eppure è proprio in quei centri di accoglienza bombardati che, tuttavia, qualcosa sembra poter fiorire. “I nostri volontari, rifugiati, hanno iniziato a proporre attività per i bambini. Gioco, disegno: qualsiasi cosa che possa farli almeno per un po’ distrarre dalla loro condizione”. Vuol dire che li avete formati bene i vostri operatori… “E’ un fatto che stiamo guardando con stupore e che vogliamo sostenere. Stiamo cercando di capire come. Potrebbe essere anche un nuovo settore di attività per noi”, ragiona Yousef.

A guerra finita, inoltre, quando finirà, ci sarà anche da ricostruire il Centro per la vita indipendente di Gaza. Ci pensate a questo? “Quando la guerra finirà ci sarà molto bisogno di attività come quelle offerte dal nostro centro. Tante e avranno bisogno di noi”.