FRONTI CALDI. San Lorenzo in Correggiano, alla Festa delle comunità le testimonianze da Ucraina, Cisgiordania e Gaza
Ucraina, Cisgiordania, Gaza.
Unite dalla guerra e dalla devastazione. Lì dove l’umanità sembra abbandonata a se stessa. Se ne è parlato a San Lorenzo in Correggiano, nella cornice del teatro Marilena Pesaresi, in occasione della Festa delle comunità, grazie all’incontro promosso dal gruppo Fratelli tutti. “ Una serata che nasce con l’idea di parlare di pace. Nonostante in questo periodo, per quello che vediamo tutti i giorni, è molto difficile”, introduce Monica Patrignani.
“Cerchiamo di farlo attraverso il racconto di alcune storie he raccontano la resistenza che viene messa in atto dai popoli: persone, donne, bambini che si trovano a vivere alcuni dei capitoli più bui delle della nostra storia”.
Perché è importante esserci
“You can, I can’t” (“tu puoi, io non posso”) ha detto un ucraino di Kerson a Damiano Leardini quando lo ha salutato perché all’indomani sarebbe tornato alla sua solita vita a Rimini.
Damiano ha servito con Operazione colomba sul fronte ucraino per due volte, lo scorso anno e questo. Lo ha fatto per vedere con i suoi occhi cosa sia la guerra, al di là del racconto che ne fa la tv. “ La guerra non è un film. È una cosa purtroppo reale che provoca devastazione, dolore e scompiglio in ogni aspetto della vita”, racconta, ricordando un bambino di 9 anni incapace di fare il “ due più due”, che forse “ non rivedrà più il padre”.
A Kerson, sotto le bombe, si è occupato di “cose normalissime insieme a loro (gli ucraini, ndr), come la distribuzione dei beni di prima necessità.
Vi garantisco che avrebbero potuto farla tranquillamente anche loro. Ed è proprio qui che nasceva la mia domanda: ‘Cosa ci sto a fare qui?’. Uno si chiede: ‘Sono utile? Servo? O non servo?’”. Confessa: “ L’anno scorso, a dire il vero, ero un po’ in crisi”. La svolta è arrivata l’ultimo giorno, quando qualcuno gli ha chiesto: “ Tornerai?”.
Damiano ha risposto: “‘Spero di no, perché così vuol dire che la guerra è finita’. E lui mi ha detto: ‘E se la guerra non è finita?’”. Poi quell’ucraino gli ha spiegato: “‘ Tu ora torni a casa tua, alla tua vita, dai tuoi affetti, al tuo lavoro. Tutte cose che anche noi avevamo fino a due anni fa’”.
Il dialogo è proseguito. “‘ Non capisci l’importanza che ha il fatto che tu sia qui?’”. Damiano continua a non capire. L’altro gli fa: “‘ Il giorno in cui non verrete più, noi ci sentiremo abbandonati. Il fatto che voi siate qui per noi è una speranza. A te non sembrerà, ma per noi è così’”. Allora Damiano capisce. “ Mi si sono aperti gli occhi. Tant’è vero che sono tornato e ho continuato a vivere con loro questi momenti”.
Difficilmente c’è pace senza giustizia
Il racconto si è spostato dall’Ucraina alla Cisgiordania con la testimonianza di Daniele Missiroli, anche lui operatore di Operazione colomba attivo in Palestina da luglio ad agosto. “ È stato molto impegnativo.
Sto ancora facendo i conti con la realtà che ho incontrato”. Una realtà segnata dall’occupazione illegale (dichiarata tale dalla Corte dell’Aja) e dalla presenza dei coloni israeliani. “ Le colonie si sono allargate tantissimo. Tutte le alture, tutte le colline, sono abitate o presidiate dai coloni. Significa che se c’è anche solo una casa, un pollaio, un prefabbricato su una collina, in un raggio di 500 metri o un chilometro, nessuno può passare. Questo interrompe tutte le vie di collegamento. La quotidianità è terribilmente schiacciata dall’occupazione e dalle forze di occupazione che, fondamentalmente, sono i coloni”. Continua: “ Immaginate il Far West, dove i cowboy andavano a vivere nelle terre degli indiani, prendendosi degli appezzamenti di terreno, con l’obiettivo di far ritirare gli altri. Oggi, i coloni sono al governo e rappresentano un’incredibile forza di potere politico. Hanno un potere tale che l’esercito e la polizia, che in teoria dovrebbero essere gli unici baluardi di una fantomatica legge, sono agli ordini dei coloni. È una situazione simile al ventennio fascista, quando le camicie nere avevano mano libera. Chi osava contraddirli in un atto di violenza, sapendo che avevano il benestare politico?”.
Daniele ha vissuto un episodio emblematico. “ Di ritorno verso Tuwani, passiamo davanti a Humalkair, villaggio di Beduini vicino alla colonia di Carmel. C’è uno scavatore: il colono ha sfondato la recinzione ed è entrato. I palestinesi cercano di fermarlo.
Lui impazzisce, investe una persona. Scende e inizia a sparare all’impazzata. Il primo proiettile, quasi senza guardare, va verso il campetto da basket dove c’era Auda, un nostro contatto, che stava giocando con i ragazzini”. Colpito al petto, Auda morirà poco dopo. In mezz’ora arrivano soldati e polizia. Il colono indica sette palestinesi e due internazionali, tra cui un italiano, e “ la polizia, ovviamente, li arresta. Uno di loro, Ali, mi ha raccontato delle torture subite durante quei cinque giorni”.
Il colono rimane ai domiciliari per un po’ e “ andava la mattina a fare colazione con la polizia”. Poi torna a scavare col bulldozer.
Daniele riflette: “ Credo che ad oggi il vero valore che in coscienza possiamo perseguire sia la giustizia. E credo che la pace possa essere solo il miglior risultato possibile della giustizia. Io cerco la giustizia. Spero che porti come risultato la pace, ma non è detto. Per quello che ho visto, però, credo che perseguire la pace a prescindere dalla giustizia non abbia alcun senso”.
Gaza: l’unico modo per restare umani è morire?
E dalla Cisgiordania alla Striscia di Gaza la situazione peggiora. “ Sono Yousef Hamdouna, palestinese, nato, cresciuto e vissuto sempre nella Striscia di Gaza”. Così si è presentato l’operatore di EducAid, ong riminese con cui collabora da anni. Era partito per una missione in Italia due settimane prima del 7 ottobre 2023 e da allora non è più potuto rientrare a casa. “ Ho lasciato a Gaza tutti i miei familiari. Mia madre, purtroppo, è morta mentre ero bloccato qui”.
Hamdouna ricorda le radici della sua famiglia, rifugiata da Al-Majdal (oggi Ashkelon): “Sono rifugiato perché così mi definiscono le Nazioni Unite. Ho un numero, una carta. Sono figlio di genitori cacciati via dalla loro città natale. Non è la mia storia personale, è la storia di un popolo”.
Il racconto scivola sull’attualità: gli sfollamenti forzati, le mappe dell’esercito israeliano, la distruzione sistematica dei quartieri. “I carri armati kamikaze vengono riempiti di esplosivo e mandati dentro i quartieri. Sono capaci di creare una distruzione totale per 60 metri”. E le persone che tentano di evacuare “ portano con sé poche cose, perché sanno che vanno verso il nulla”.
Struggente la testimonianza affidatagli dal fratello. “ Camminando verso sud continuava a voltarsi indietro: casa sua non c’era più. Ha visto tutta Gaza distrutta. Sapeva in cuor suo che questa volta nessuno di loro, sarebbe tornato”.
Alla fame a cui è costretta la popolazione palestinese, si accompagna l’umiliazione. “ Molti a Gaza iniziano a desiderare di morire sotto un bombardamento. Ho sentito un mio amico piangere: aveva scavalcato dei cadaveri per correre a prendere un sacco di farina”.
Un altro, racconta, “ ha mandato il figlio a cercare cibo. Non è più tornato. A Gaza, forse l’unico modo per restare umani è morire”.
Eppure, nonostante tutto, i colleghi di Hamdouna continuano a lavorare in mezzo alle macerie, tra gli sfollati.
“ Abbiamo perso tutto, ma non abbiamo smesso di difendere i diritti delle persone con disabilità. Li abbiamo imparati da voi, dal mondo occidentale. E vi chiediamo: cosa state facendo?”.
L’appello finale è netto. “ Non basta più informarsi. Bisogna agire, e farlo per voi stessi. Perché questa vergogna di oggi non diventi la memoria di domani. E tutti ci domanderemo, o qualcun altro ci chiederà: ‘Cosa avete fatto?’”.

