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Vangeli e vangelo nella vita quotidiana

Nel linguaggio comune c’è una distinzione tra il termine vangelo in senso largo, che può indicare l’annuncio e la vita cristiana, e il termine Vangelo che, con la specificazione di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, indica i libri che sono parte del Nuovo Testamento. Potremmo pensare che l’accezione larga del termine sia derivata dai libri denominati Vangeli, dal momento che essi hanno avuto un influsso determinante nella vita delle Chiese e di ogni uomo. In realtà il termine greco euanghélion originariamente non indica un genere letterario, ma qualcosa che ha a che fare con la vita di tutti i giorni.

Dunque che cosa significa all’origine il termine vangelo?
La parola greca può indicare o un annuncio positivo o anche la ricompensa data all’annunciatore. Veniva usato anche in ambito militare per indicare la ricompensa data all’araldo che comunica al re la vittoria in battaglia. Nella LXX, la traduzione greca dell’Antico Testamento, il termine viene usato proprio con questa accezione, ad esempio nell’episodio in cui Davide ricompensa con la morte coloro che gli annunciano la morte del figlio di Saul (cf. 2Sam 4,10). Il verbo corrispondente, euangelizomai, si trova con dei termini come giustizia, salvezza o pace come complemento oggetto, per indicare un annuncio che rende presente Dio e i suoi doni: “Ho annunciato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi: non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai” (Sal 39,10); “Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza” (Sal 95,2); “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio»” (Is 52,7). Paolo cita proprio questo passo di Isaia per indicare l’annuncio del Signore Gesù, che comunica la salvezza nel suo nome (cf. Rm 10,14-16). L’apostolo, giocando sulla doppia valenza del nome come azione di annuncio e ricompensa, dichiara di non avere bisogno di ricompense, perché il vangelo stesso è apportatore della sua ricompensa (cf. 1 Cor 9,18). Infatti esso è ricompensa interiore ed esteriore, ossia giustizia e potenza di Dio che opera per la salvezza (cf. Rm 1,16-17), attraverso segni e prodigi (cf. Rm 15,19) che avvengono per la forza dello Spirito Santo.

Quindi la parola vangelo, intesa in senso cristiano, è stata coniata da San Paolo?
Paolo la ritrova nella tradizione ecclesiale, che egli stesso accoglie e che trasmette ai destinatari delle sue lettere, nella forma in cui egli stesso l’ha ricevuta, ossia come annuncio della morte di Cristo secondo le Scritture e della sua resurrezione il terzo giorno, con le apparizioni a Cefa e ai Dodici. Ad esse Paolo aggiunge anche una serie di successive apparizioni a più di cinquecento fratelli, a Giacomo e a tutti gli apostoli, e da ultimo a Paolo stesso, che si paragona ad un aborto (cf. 1Cor 15,3-5). Se tale è il contenuto del vangelo che Paolo annuncia, insieme al collegio degli apostoli che lo precede, si deve però subito affermare che non si tratta di una pura trasmissione di contenuti ma della comunicazione della fede in Gesù il messia morto e risorto, che trasforma l’interlocutore, cioè della Parola non di uomini ma di Dio, che opera in colui che crede (cf. 1 Ts 2,13). Con questa accezione il termine vangelo è utilizzato, qualche decennio più tardi rispetto alla prima lettera ai Corinzi, nell’incipit del Vangelo di Marco: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio” (Mc 1,1). Qui il termine vangelo non si riferisce tanto all’opera letteraria, quanto piuttosto alla comunicazione della fede in Gesù Cristo figlio di Dio, per mezzo della lettura del libro.

Allora come sono nati i Vangeli, intesi come libri?
È molto probabile che, al momento in cui la generazione degli apostoli, che avevano conosciuto personalmente Gesù, stava scomparendo, le diverse Chiese locali abbiano avvertito la necessità di fissare per iscritto la predicazione del vangelo, perché essa potesse rimanere come testimonianza unica e preziosa della tradizione apostolica. Iniziano a circolare così le prime narrazioni che, nella forma letteraria delle biografie popolari, rileggono la storia di Gesù alla luce della fede nel Cristo risorto, compimento delle Scritture, raccogliendo insieme un complesso di fonti, orali e scritte, su opere e detti di Gesù. Nasce un nuovo genere letterario, più tardi denominato “vangelo”, che accomuna una serie di opere, tra loro fortemente interdipendenti. Rimanendo in contesto canonico, secondo un’ipotesi accreditata presso gli studiosi, il Vangelo più antico è quello di Marco (60 d.C. ca). Su di esso si baserebbero, indipendentemente l’uno dall’altro, il Vangelo di Matteo (80 d.C. ca) e quello di Luca (80 d.C. ca), che attingono anche da una fonte che offre una serie di parole e discorsi di Gesù. Tale dipendenza spiegherebbe anche perché i tre Vangeli presentano una forma “sinottica”. Infine il Vangelo di Giovanni, che conosce tradizioni affini soprattutto a quelle di Marco e di Luca, presenta una forma compositiva largamente originale e viene ordinariamente datato verso la fine del I secolo d.C.

Perché i Vangeli sono quattro? Non rischiano di pregiudicare la credibilità della testimonianza con le differenze e contraddizioni tra di loro?
Anche Sant’Agostino era fortemente preoccupato per queste contraddizioni nei vangeli, perché gli avversari della Chiesa, eretici e pagani del suo tempo, le utilizzavano per screditarli. La soluzione che egli presenta è di grande originalità e attualità. Invece di tentare una improbabile armonizzazione, o addirittura di fonderli insieme in un unico libro più “funzionante”, come aveva precedentemente fatto Taziano (II sec. d.C.), egli addirittura le evidenzia e valorizza, applicando il principio ermeneutico della “concordia discors”, che risale alla filosofia di Empedocle e allo stoicismo. Secondo questo principio, la realtà si mostra attraverso una tensione sempre rinnovata tra polarità contrarie, che nella loro relazione vengono trascese verso un’armonia unitaria. Agostino afferma così che le tensioni che si manifestano tra un vangelo e l’altro costituiscono lo spunto per approfondire un’armonia di significato più radicale e profonda, una concordia discorde. Quindi, per Agostino, non bisogna temere le contraddizioni tra i testi, al contrario è importante sottolinearle, perché esse sono segni di quella particolare ottica teologica con cui ogni evangelista guarda allo stesso mistero di Cristo. L’accesso diversificato al mistero di Cristo non ne pregiudica l’unità e l’armonia ma le rafforza, mostrandone al contempo la ricchezza e complessità.

Davide Arcangeli