Home Attualita Valentina: “La mia è una scuola di pace”

Valentina: “La mia è una scuola di pace”

valentina

Un mio vecchio professore di latino amava dire che per insegnare il latino a Pierino bisognava conoscere sia il latino che Pierino. Dello stesso avviso è Valentina che di professione fa l’insegnante di italiano a immigrati, profughi e rifugiati. Valentina ha iniziato questo “mestiere” come volontaria alla Caritas e alla Casa della Pace fino a quando ha capito che questa era la sua professione. Così ha lasciato la scuola superiore privata nella quale insegnava per diventare la “prof” dei ragazzi accolti dalla Caritas.
L’abbiamo incontrata al termine di una lezione nella quale ha spiegato, a un gruppo di ragazzi, il significato di maschile e femminile e dei concetti sopra/sotto.

Valentina in che cosa consiste il tuo lavoro?
“Innanzitutto bisogna precisare che i miei alunni si dividono in due categorie: quelli che provengono dall’emergenza sbarchi (arrivano dalla Sicilia, Lampedusa, etc) che stanno qui qualche mese; e coloro che sono inseriti nel progetto SPRAR (richiedenti asilo). Con tutti il primo lavoro è quello di alfabetizzazione, ma mentre con i primi si cerca di insegnare l’italiano come strumento base per il dialogo, la comunicazione, la relazione, con i ragazzi dello SPRAR, che rimangono più a lungo, oltre alla lingua si cerca di far conoscere la nostra cultura”.

In questo caso cosa insegni oltre alla lingua?
“Con loro si fanno laboratori di scrittura, di poesia; si raccolgono le loro storie
(sempre drammatiche); si discute di attualità, di terrorismo, di immigrazione. Con i ragazzi del corso precedente abbiamo realizzato anche un video nel quale loro facevano interviste ai passanti e una cena nella quale ognuno aveva preparato un piatto tipico del Paese originario. Il successo è stato che tutti i 20 ragazzi sono stati inseriti nella scuola media pubblica”.

Qual è il segreto del tuo lavoro e di questo successo?
“Senz’altro la chiave che apre tutte le porte è il legame che si riesce a costruire con i ragazzi. Se riesci a costruire buone relazioni ti seguono e cadono tutti i muri di diffidenza, di paura, di razza, di religione e di sesso”.

Attualmente quanti alunni hai?
“Ventitre, divisi in due corsi; lavorando con i ragazzi dell’emergenza profughi ci sono continuamente nuovi arrivi e continui ricambi; quindi devi differenziare i livelli. Con tutti l’obiettivo è una prima alfabetizzazione di base”.

Quali sono le maggiori difficoltà?
“Gli ostacoli vengono innanzitutto da una diffidenza di partenza; poi dal fatto che conoscono poco l’inglese o il francese e molti di loro sanno solo l’arabo se non addirittura solo il dialetto del loro Paese di origine. Rispetto alla lingua le difficoltà più grosse vengono dalla grammatica: i verbi, gli articoli, le preposizioni e soprattutto le eccezioni, cosa assolutamente inconcepibile in quanto assente nelle altre culture”.

Quali sono invece gli aspetti della nostra cultura che trovano difficili da comprendere?
“Sono diversi. Innanzitutto i ragazzi sono quasi tutti mussulmani praticanti e pregano molto. Non capiscono il nostro modo di vivere la religione in maniera così superficiale (o almeno così come appare a loro). Una cosa che li sorprende molto è vedere le donne così libere, intraprendenti, che lavorano, che vestono come vogliono. Un altro aspetto è quello della famiglia: per loro è inconcepibile la convivenza di un uomo e di una donna al di fuori del matrimonio e i figli nati in tale situazione. Magari da loro un uomo ha più mogli ma sono sempre sposati. Un’altra cosa che non capiscono è il nostro amore per la pasta”.

I ragazzi hanno difficoltà a seguire i corsi?
“Io faccio un’ora e un quarto per ogni corso, ogni giorno, dal lunedi al venerdi. Questa è una cosa che fanno fatica a capire. Perché la scuola è così frequente e ha orari  fissi? Perché si deve venire sempre, anche se qualche volta non se ne ha voglia? In generale si nota una mancanza di senso del dovere. Ma c’è da considerare anche che vengono da anni nei quali l’unica preoccupazione è stata la sopravvivenza e riuscire a scappare dalla fame e dalla guerra”.

Attualmente che problemi stai attraversando?
“In questo ciclo le maggiori difficoltà le incontrano i ragazzi afgani. Sono nomadi e analfabeti. Hanno difficoltà a integrarsi con gli altri ragazzi ma anche semplicemente a stare seduti. Si alzano spesso, chiaccherano tra di loro e parlano solo il dialetto della loro tribù”.

Gli aspetti più belli e più gratificanti del tuo lavoro/servizio?
“Quando vedo un ragazzo acquisire quegli elementi fondamentali che lo aiutano a relazionarsi con gli altri. La convivenza tra di loro porta a scambi molto belli sia a livello religioso che culturale. Lo stare insieme è una vera scuola interculturale che promuove l’uguaglianza, il rispetto dell’altro e la valorizzazione delle diversità come risorsa piuttosto che come ostacolo. Io posso vedere l’altro diverso da me per razza, religione e cultura come una ricchezza e non come un nemico o una persona di cui diffidare. Diventa una scuola di pace”.

Cesare Giorgetti