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Opera buffa fuori tempo massimo

Domenico Colaianni, Don Checco-ph F.Squeglia

Successo per il divertente Don Checco di Nicola De Giosa messo in scena al Teatro Politeama di Napoli per la stagione del San Carlo   

Barbara Bargnesi e Carmine Monaco in Don Checco-ph F.Squeglia

NAPOLI, 20 novembre 2018 – I grandi innovatori spesso hanno faticato a farsi strada e a imporre la propria visione artistica. Molto più facile raggiungere il successo per gli epigoni, tanto più se di talento, che hanno tutto il tempo di metabolizzare e mettere a frutto quanto già intrapreso da altri. È il caso di Nicola De Giosa – un nome noto a mala pena agli addetti ai lavori – che nel 1850, quando la stagione dell’opera buffa si era ormai conclusa, ottenne con Don Checco un successo formidabile: a Napoli, dove avvenne il debutto, restò in cartellone per ben novantasei sere. Dopo un simile exploit, l’opera è però precipitata nel cono d’ombra, come se la storia avesse ristabilito l’esatta gerarchia della produzione buffa: al donizettiano Don Pasquale spetterebbe la notorietà che si deve a un capolavoro, a Don Checco l’oblio. Di recente, per fortuna, il titolo più noto di De Giosa è stato rispolverato, grazie agli sforzi congiunti del Teatro San Carlo – visto che Napoli l’aveva tenuta a battesimo – e del Festival della Valle d’Itria, dato che il compositore era nativo di Bari.

Così Don Checco è appena andato in scena al Politeama napoletano, per la stagione del San Carlo. Ascoltandolo si ha l’impressione non tanto di un’opera vera e propria, ma quasi di un assemblaggio di topoi: la trama dei due atti in cui si articola il libretto di Almerindo Spadetta appare un po’ esile e scompaginata; la musica di De Giosa fin troppo facile – pur con i suoi suggestivi echi di Rossini, Donizetti e persino Verdi – né particolarmente elaborata sul piano strumentale. Si tratta però di un’impressione epidermica perché, soprattutto nel secondo atto, si può apprezzare una cifra personale nel disegnare le tipologie vocali dei personaggi, che nei momenti migliori – e questo vale soprattutto nel caso del protagonista – diventano anche psicologiche.

Va detto che l’esecuzione poteva contare su un cast di buon livello, con interpreti tutti molto coinvolti sul fronte canoro e interpretativo. Nei panni di Don Checco, pieno di debiti e affamato, il baritono comico Domenico Colaianni ha dipinto con buona musicalità un protagonista stralunato e quasi surreale, senza scadere nel cliché – fin troppo scontato – della sempiterna maschera di Pulcinella. Il suo carattere ha modo di definirsi in relazione agli altri, soprattutto nel confronto con l’oste Bertolaccio (il duetto fra i due buffi è esilarante), personaggio cui Carmine Monaco, grazie alla solidità dei mezzi vocali e alla sicurezza nella linea di canto, sa imprimere tratti sanguigni d’irresistibile comicità. Nei panni della figlia dell’oste, Barbara Bargnesi si è trovata a suo agio con una scrittura caratterizzata da numerose colorature che sembrano ricordare in più di un’occasione il virtuosismo della Norina donizettiana (d’altronde De Giosa fu un protetto di Donizetti). Di apprezzabile scioltezza il tenore Giovanni Sala nei panni del suo timido e goffo innamorato (ma non si pensi a Nemorino, perché qui Carletto cambia atteggiamento con estrema rapidità). Il basso Rocco Cavalluzzi interpretava correttamente il piccolo ruolo del Conte, una sorta di deus ex machina che sembra mostrare più di una analogia con Rodolfo – intercede, come lui, a favore dei due giovani innamorati – della Sonnambula. Infine, Carmine Pinto ha saputo imprimere all’Orchestra del San Carlo un andamento vivace e spigliato, avendo cura di agevolare gli interpreti.

In palcoscenico la suggestiva scena fissa portava la firma di Nicola Rubertelli (l’interno di un’osteria con al centro una grande stufa su cui troneggia un pentolone) e i bei costumi anni quaranta quella di Giusi Giustino, mentre in cabina di regia Lorenzo Amato si è servito della lente di una garbata ironia per enfatizzare atteggiamenti e cliché tipici del melodramma: scelta felicemente speculare a un’opera che fa smaccato ricorso a un’intera serie di stereotipi, riuscendo poi a rimontarli con perfetta funzionalità.

Giulia Vannoni