Al Comunale di Bologna I Capuleti e i Montecchi di Bellini affidati a un cast formato esclusivamente da allievi della Scuola dell’Opera
BOLOGNA, 11 maggio 2018 – Sopra le vetrate di una sala da bigliardo campeggia la scritta “Bar Verona”: unico riferimento alla città che ha fatto da cornice al tragico amore fra Giulietta e Romeo reso immortale da Shakespeare. La regista Silvia Paoli, lo scenografo Andrea Belli e la costumista Giulia Giannino hanno ambientato negli anni settanta I Capuleti e i Montecchi in programmazione al Comunale di Bologna, concependo l’allestimento come una faida tra due famiglie mafiose rivali (c’è anche il cruento rito d’iniziazione di Tebaldo che nel libretto di Romani non è il cugino di Giulietta, ma il suo promesso sposo). Agli scontri fra le due fazioni assistono impotenti un gruppo di ragazzini quasi coetanei dei due innamorati, spesso attoniti di fronte a degli adulti così violenti ma di cui presumibilmente, da grandi, ricalcheranno le orme. Del resto il conflitto tra Capuleti e Montecchi qui trae origine dall’omicidio di un fratello di Giulietta da parte di Romeo, che però lo ha ucciso in battaglia (come suggeriscono i versi): un episodio, tuttavia, che ha radicalizzato sempre più il vecchio Capellio, padre della fanciulla, nel suo odio verso il giovane.
Quest’opera del 1830 rappresenta un passo indietro da parte di Bellini rispetto a un lavoro profondamente innovativo di soli tre anni prima, come Il pirata. In primo luogo, il personaggio di Romeo è en travesti (alla première veneziana fu Giuditta Grisi): scelta che sembra retrodatare inesorabilmente l’opera, riconducendola a certi cliché del Rossini serio; poi per una certa discontinuità dell’arco drammatico: solo nella parte finale – dall’aria di Romeo Deh! Tu bell’anima – si rintracciano quei tratti di modernità melodica che caratterizzeranno in modo inconfondibile e innovativo la musica belliniana. Queste disomogeneità, giustificate con la fretta con cui il compositore si cimentò nella stesura dei Capuleti (aveva un solo mese a disposizione), pongono certamente diversi problemi esecutivi: in particolare alla bacchetta. Poco incline alle sfumature dinamiche, Federico Santi, sul podio dell’orchestra bolognese apparsa tutt’altro che adamantina e non sempre ben appiombata ritmicamente, anziché cercare quei germi di novità che potevano ricollegarsi al Bellini più melodico, ne ha retrodatato le sonorità. Nell’insieme la lettura appare un po’ sbilanciata e non sempre in grado di salvaguardare il delicato equilibrio di questo melodramma.
Il cast, proveniente dalla Scuola dell’Opera del teatro felsineo (in collaborazione con Tenerife), era ovviamente formato da giovani interpreti: se la sono cavata egregiamente, soprattutto le due donne. Efficacissima in scena, la venticinquenne russa Nina Solodovnikova possiede una voce piuttosto esile, che ha saputo però gestire con precisione, dosando con cautela le variazioni e riuscendo a imprimere al personaggio di Giulietta una struggente fragilità adolescenziale. Brava ed espressiva la canadese Christina Campsall: il suo Romeo, di buona timbratura, dimostra il dominio della linea di canto, nonostante qualche disomogeneità. Sul versante maschile il tenore spagnolo Gillén Munguia è stato un Tebaldo a suo agio solo nel registro centrale e con qualche problema di troppo in acuto. Vincenzo Santoro, padre di Giulietta, vero e proprio calco del padrino mafioso, ha comunicato un’idea di crudele irremovibilità nel negare il perdono alla figlia. Dall’emissione sonora e ben timbrata, Diego Savini, interpretava l’unico personaggio positivo nel terzetto di adulti: per il libretto Lorenzo è un medico, qui un barista. Non è esattamente la stessa cosa, ma così impone la coerenza registica. Del resto Giulietta non muore di dolore, abbattendosi sul corpo dell’amato, ma per uccidersi si spara un colpo di pistola.
Giulia Vannoni