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Un viaggio a Reims senza Rossini

Il viaggio a Reims - ph Yasuko Kageyama

osservatorio musicale

Al Teatro dell’Opera di Roma la cantata scenica per l’incoronazione di Carlo X con la regia di Michieletto

ROMA, 16 giugno 2017 – Un’istantanea d’epoca: il quadro di François Gérard del 1827 realizzato per L’incoronazione di Carlo X, avvenuta due anni prima, che si compone un po’ alla volta nel corso dello spettacolo. È questa la chiave di lettura adottata da Damiano Michieletto nel suo Viaggio a Reims: un allestimento nato ad Amsterdam due anni fa e adesso in calendario all’Opera di Roma (scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti). In luogo della locanda del Giglio d’Oro nella località termale di Plombières, immaginata dal libretto, il regista ambienta la monumentale cantata scenica – composta da Rossini nel 1825 per festeggiare l’incoronazione del sovrano francese – in una galleria d’arte: location tra le più di moda, da qualche anno a questa parte, per le regie d’opera. Così il bizzarro campionario di personaggi provenienti da tutta Europa per partecipare ai solenni festeggiamenti, ideato da Luigi Balocchi (un librettista che non finisce di sorprendere per la capacità di alternare ricercati contenuti di respiro internazionale a versi spiritosamente dozzinali), prende lentamente forma accanto ai più iconici capolavori di varia nazionalità: Velasquez, Goya, Picasso, van Gogh, Botero, Magritte, Frida Kahlo e persino Keith Haring. Ma la trovata forse più suggestiva, fra le animazioni delle opere esposte nella galleria, sono le tre Grazie che – per dar vita a un’armoniosa danza – escono dalla teca in cui sono racchiuse e poi vi rientrano. Naturalmente, in tale rivisitazione drammaturgica non rientrano tutti i personaggi: ne rimane esclusa l’albergatrice Madama Cortese, che qui si trasforma in una esagitata gallerista; la sua tuttofare Maddalena; il collezionista di anticaglie Don Profondo, divenuto un battitore d’asta; e la poetessa classica Corinna, raffigurata come una ragazzetta secchiona che si aggira per le stanze del museo.

Quando nel 1984 andò in scena per la prima volta a Pesaro questa partitura mai più eseguita dopo il debutto (era impossibile che restasse in repertorio, vista l’ingloriosa fine del Borbone, detronizzato di lì a qualche anno), il successo fu strepitoso e segnò l’apogeo del festival dedicato a Rossini. Molti fattori contribuirono allo straordinario risultato: un bellissimo e innovativo spettacolo di Luca Ronconi; un cast di fuoriclasse e, soprattutto, la meravigliosa bacchetta di Claudio Abbado, in grado d’imprimere un andamento vorticoso a un’opera che – a ben guardare – si configura come una successione di arie fin troppo paratattica. Ma, se viene meno la coesione musicale, questo ‘dramma giocoso’ scivola inesorabilmente nella monotonia, senza riuscire neppure a far sorridere, e il diversivo offerto dalle immagini non basta a compensare le carenze esecutive.

Stefano Montanari, nella duplice veste di bacchetta e concertatore al fortepiano (un ruolo che gli è sicuramente più congeniale), ha adottato una discutibile scelta dei tempi, altalenanti fra accelerazioni e rallentamenti, in una lettura nevrotica e dal fraseggio spigoloso, estranea alla cantabilità rossiniana. Si avvertiva così una scollatura fra buca e palcoscenico, tanto più che nel Viaggio è richiesto moltissimo a personaggi che – nonostante limitino il loro intervento a tanti piccoli siparietti – sono messi a fuoco dalla musica in modo sempre icastico. Così anche cantanti di collaudate capacità sembravano piuttosto a disagio: è il caso della Madama Cortese di Francesca Dotto e della Maddalena di Gaia Petrone, apparse ora troppo fioche e ora stranamente metalliche.

Migliore in campo tra le interpreti femminili è stata Mariangela Sicilia, che ha cantato con aggraziata precisione l’interminabile aria di Corinna, mentre Maria Grazia Schiavo è stata – senza troppa verve – la frivola Contessa di Folleville, e Anna Goryachova ha rivelato più di un limite – per musicalità e fraseggio – come Marchesa Melibea. Una piacevole rivelazione il basso Adrian Sâmpetrean, nel difficile ruolo di Lord Sidney; lievemente usurato ma ancora solido Bruno De Simone, un Barone di Trombonok in grado di scolpire la parola. Non così Nicola Ulivieri che, nell’aria del catalogo di Don Profondo (divenuta con il tempo celeberrima) non è riuscito sempre a scandirne il rapidissimo sillabato. Deludente anche Merto Sungu nell’acutissimo ruolo del Conte di Libenskof, mentre l’altro tenore Juan Francisco Gatell ha ben disegnato vocalmente un Cavalier Belfiore spiritoso e spavaldo. Sopra le righe quanto basta il gradasso Don Alvaro di Simone Del Savio, mentre tra i personaggi minori da menzionare il Luigino del bravo Enrico Iviglia e il medico Prudenzio di Vincenzo Nizzardo. 

L’esecuzione era stata preceduta da un affettuoso ricordo di Philip Gossett, il musicologo americano scomparso pochi giorni fa, mentre ai primi di marzo se n’era andato anche il direttore d’orchestra Alberto Zedda. Ai due massimi artefici, sul versante teorico, della Rossini renaissance va tutta la nostra gratitudine: senza il loro paziente contributo di studio e divulgazione non avremmo mai conosciuto tante pagine di Rossini che ascoltiamo oggi. E Il viaggio a Reims è una di queste.

Giulia Vannoni