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Un patrimonio muto

Mi frulla nella testa da un po’ di tempo un’espressione originale: “barbaro verticale”. L’espressione che indica uno che vive in un certo territorio, sin dalla nascita, ma non ne ha assunto la cultura, la tradizione, il pensiero, la storia. Semplicemente non la conosce. È uno straniero nel suo stesso suolo, un barbaro, cioè uno che “balbetta” la lingua – vale a dire i valori, le idee, i simboli – del luogo in cui vive.

Ebbene, il nostro mondo è abitato da non pochi “barbari verticali” che hanno perso, senza quasi accorgersene e senza quasi responsabilità personale, l’abc del mondo in cui sono cresciuti. Ripeto. Non vengono da fuori ma sono nostri, cresciuti in mezzo a noi, dentro alle nostre scuole, alle nostre famiglie, ai nostri percorsi di formazione cristiana…

Mi conduce a considerazioni simili anche la vicenda di Silvia Romano, che in un’intervista ha spiegato le ragioni e le fasi della sua conversione all’Islam avvenuta durante la sua prigionia. Si tratta della conversione di una giovane donna istruita, del Nord Italia, che – come lei stessa racconta – prima era lontana da Dio: non atea per scelta, ma “completamente indifferente”, come tanti altri giovani di oggi che dai nostri percorsi di formazione escono apparentemente impermeabili a qualsiasi esperienza spirituale. Per risvegliare in Silvia la percezione del sacro è stato “necessario” un anno di prigionia in condizione drammatiche. Del resto il mondo simbolico delle nostre terre rinvia con insistenza a Dio e precisamente al Dio di Gesù Cristo.

Penso a quante messe questi giovani avranno assistito o a quante ore di catechismo e di religione avranno partecipato; penso a tutti i simboli cristiani, alle opere d’arte ispirate alla Bibbia, a Manzoni e Dante insegnati a scuola …

Eppure, molti dei nostri ragazzi crescono come se tutto questo non appartenesse e non comunicasse loro nulla: figuriamoci generare in loro la fede (cristiana). Tutto questo patrimonio per loro è muto e non ha alcuna capacità di interpellarli. Hanno altri codici valoriali e un’altra cultura che si differenzia dalla precedente, dalla quale sembrano anzi voler prendere le distanze.

C’è un punto, forse, in cui ci si può intendere con i “barbari verticali”. C’è un punto di contatto. Nel suo racconto, Silvia dice che era partita per l’Africa perché dopo la laurea “voleva fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri”. Questo è un desiderio squisitamente evangelico o comunque in sintonia con il messaggio di Gesù.

Forse la via per tentare un contatto o un dialogo passa proprio per di qua: andare oltre alle tante parole e incontri e riflessioni, per fare qualcosa, per vivere insieme, per dedicarsi agli altri. Nel medioevo, il monachesimo affascinò i barbari perché seppe proporre loro, insieme al Vangelo, un concreto stile di vita. Possiamo sperare che funzioni anche oggi.

Alessio Magoga