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Un Macbeth pubblico e privato

Macbeth, il fantasma di Banco - Ph Annemie Augustijns

Al Grand Théâtre di Lussemburgo un potentissimo allestimento del capolavoro verdiano con la regia del tedesco Michael Thalheimer  

LUSSEMBURGO, 8 novembre 2019 – La scena è un grande catino, in sezione: centro di gravità, capace di attrarre continuamente personaggi che – anche quando tentano di allontanarsene – finiscono per ricadere al suo interno. Lì si consuma la tragedia di Macbeth: devastante perché non concede alcuna speranza, né sul piano privato né su quello politico.

Lo spettacolo realizzato in giugno per Anversa da Michael Thalheimer, fra i massimi registi tedeschi di oggi, in collaborazione a Henrik Ahr, Michaela Barth e Stefan Bolliger (scene, costumi e luci), appena approdato al Grand Théâtre lussemburgese, riesce nella difficile impresa di coniugare le funeste dinamiche psicanalitiche legate alla coppia protagonista con il dramma politico che si consuma attorno a loro.

Il protagonista Craig Colclough – Ph Annemie-Augustijns

A partire dalla presenza delle streghe: con i loro capelli di un artificiale biondo platino non si limitano ad assistere alla tragedia dal bordo superiore della scena, ma sembrano piuttosto incitare il protagonista a perseguire i suoi fini, a raggiungimere il successo ad ogni costo. In una lettura d’inquietante attualità, si vedono infatti personaggi protesi solo alla conquista del potere, senza alcuna consapevolezza e preoccupazione per come si governa.

Davanti a un palcoscenico da cui non si riesce a distogliere l’attenzione nemmeno per un istante, particolarmente potenti appaiono i due finali d’atto, dato che i quattro quadri del Macbeth qui sono stati suddivisi da un solo intervallo. La scena del brindisi (al centro è riverso il cadavere di Banco percepito dal protagonista come inquietante fantasma) è un sinistro carnevale, dove gli invitati – coperti di stelle filanti – ostentano la sguaiata allegria dei potenti.

Ancor più tragica è la visione finale: in successione rapidissima, dopo che Macduff ha ucciso il tiranno, Malcom agguanta la corona e la lucida con voluttà; sopraggiunge poi il piccolo Fleanzio (il figlio di Banco, in futuro destinato a essere il nuovo sovrano) con indosso una scintillante corona d’oro, che però comincia a vomitare sangue, imbrattandosene esattamente come chi l’ha preceduto.

Notevole il lavoro fatto da Thalheimer sui cantanti, tutti trasformati in ottimi attori. A cominciare dal baritono Craig Colclough, capace di scolpire un protagonista di grande carica espressiva: voce non troppo tonda e nell’insieme avara di legato, ma accenti sempre incisivi, in grado di dare la percezione dell’inarrestabile discesa di Macbeth lungo la china del male. Accanto a lui, ottima interprete anche Katia Pellegrino (chissà per quali ragioni la cantante pugliese non lavora più in Italia?): è impressionante come dà avvio al brindisi battendo i piedi al suolo. Le sue caratteristiche da soprano lirico non sembrerebbero ideali per Lady Macbeth: sfodera, invece, un’insospettata temperatura drammatica grazie a una notevole sicurezza nel registro superiore e, al contempo,  alla capacità di trasformare le discese al grave quasi in uno Sprechgesang dai colori spettrali. Infine s’impone il Banco di Tareq Nazm, per i grandi mezzi d’una voce di basso sempre ben timbrata, che nel duetto con Macbeth riesce ad assumere un peso da autentico deuteragonista. All’altezza dei ruoli sia il tenore Najmiddin Mavlyanov (Macduff), che nella sua aria Ah! La paterna mano ha mostrato solidità e adesione alle indicazioni della scrittura verdiana, sia il secondo tenore Michael J. Scott (Malcom) in grado di non sfigurare nel duetto con il collega. E se un po’ incolore è invece apparso Donald Thomson in veste di medico, apprezzabile Chia-Fen Wu come dama di Lady Macbeth: testimoni esterrefatti al suo spegnimento.

Attuale direttore dell’Orchestra Filarmonica del Lussemburgo, che lo ha corrisposto molto bene, Gustavo Gimeno (cresciuto alla scuola di Abbado e Jansons, con alle spalle anche una militanza nell’Orchestra Mozart di Bologna) si è mostrato perfettamente a suo agio nelle parti strumentali, mentre una certa mancanza di esperienza lo ha portato in qualche episodico momento a perdere per strada cantanti e coro. Peccato che nell’esecuzione siano state tagliate le danze e la parte relativa a Ondine e silfidi: pagine orchestrali e corali di grande bellezza aggiunte nella versione di Parigi del 1865, che è proprio quella eseguita qui. Non troppo idiomatico il coro, proveniente dall’Opera di Anversa e preparato da Jan Schweiger. Dettagli trascurabili, però, in uno spettacolo davvero notevolissimo.

Giulia Vannoni