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Tre domande che attendono risposta

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Era l’8 luglio 2013; papa Francesco, eletto da pochi mesi, decide di compiere il suo primo viaggio apostolico a Lampedusa, l’isola che da qualche tempo è salita agli onori delle cronache per essere divenuta approdo di uomini e donne che, sfruttati da trafficanti senza scrupoli, rischiano la loro vita affrontando il mare per cercare salvezza dalle guerre, dalle persecuzioni, dalla fame o semplicemente per cercare una via di riscatto da situazioni di estrema povertà.
In quel giorno papa Francesco, nell’omelia della messa celebrata nello stadio di Lampedusa, pose tre domande che in poco tempo fecero il giro del mondo, ma che ancora non hanno trovato una risposta.

Adamo dove sei? L’umanità in gioco
“Adamo, dove sei?: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. Dove sei Adamo?. Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere”. (papa Francesco a Lampedusa).
La questione epocale delle migrazioni ci mette di fronte ad una domanda che interpella la nostra umanità: “La questione al centro del dibattito è che il sistema democratico globale in cui viviamo ha deciso che ci sono persone che possono godere di tutti i diritti e altre che, senza averne colpa, sono destinate a raccogliere i metalli dalle miniere con le mani e non possono nemmeno sperare di andarsene. E questa cosa è semplicemente disumana. (…) Siamo arrivati a dire che non possiamo permetterci di salvare vite umane, etichettando come ideologia l’atto di salvare vite umane, un principio fondante della nostra umanità”. (Marco Gallicani, Proposta educativa 12/2017).
Adamo dove sei? Uomo dov’è finita la tua umanità?

Caino, dov’è tuo fratello? La responsabilità di questo tempo
“«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio!”. (papa Francesco a Lampedusa).
Di fronte a questa domanda anche noi ci smarchiamo, come Caino nel racconto biblico, decliniamo la nostra responsabilità o indichiamo qualcun altro come l’effettivo responsabile. Certo nessuno di noi fa il trafficante di esseri umani, ne’ il guardiano nelle carceri libiche, del Niger o di altri luoghi ormai famosi… ma il fatto che sappiamo ci rende responsabili e, forse, complici silenziosi.
I giovani della mia generazione hanno chiesto ai loro nonni: perché non avete fatto nulla per impedire le leggi razziali del fascismo? Perché non avete fatto nulla contro i campi di concentramento nazisti e la deportazione di tanti discriminati? Cosa vi ha impedito di reagire a quell’orrore?
I giovani delle future generazioni chiederanno a noi: perché non avete fatto nulla per impedire che il Mediterraneo si trasformasse in un cimitero? Perché non avete aperto corridoi umanitari? Perché non avete protetto quelle persone innocenti e inermi?
E noi diremo: perché abbiamo avuto paura! Perché non abbiamo riconosciuto in loro dei fratelli e delle sorelle, ma li abbiamo qualificati e divisi in tante categorie solo per affermare che non avevano il diritto di cercare rifugio da noi, che non potevamo aiutarli.
“Il Signore disse a Caino:«Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!»”. (Gen 4,9-10).

Chi ha pianto? Le lacrime che guariscono dall’indifferenza
“Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”. (papa Francesco a Lampedusa).
“Forse arriva un momento in cui anche la possibilità di coinvolgersi nella tragedia ha un limite. Arriva un momento in cui il nostro sistema operativo va in protezione per eccesso di input. Nel martellamento mediatico quotidiano che ci riporta drammi di uomini, donne, bambini bloccati nel gelo a temperature impensabili; naufragi nel mare mediterraneo con morti e dispersi, si attua dentro di noi come una reazione di difesa, che tende a porre un filtro per ricuperare la tranquillità turbata da queste notizie. Ma abbiamo il diritto di stare tranquilli quando intorno a noi si è scatenata questa tempesta umanitaria che non cessa e che non tende a diminuire? Quel disagio che sentiamo dentro di noi, quel malessere che vorremmo risolvere in qualche modo, non è altro che la nostra umanità che bussa alla nostra coscienza e ci dice che la cosa ci riguarda e riguarda esattamente il nostro modo di essere uomini”. (Tecnodon, Gennaio 2017).
Da piccoli ci dicevano: “Smettila di piangere che non serve a nulla!”, ma nel clima culturale che respiriamo, anche solo piangere o provare vergogna di fronte all’orrore di quanto vediamo ogni giorno sui nostri schermi è divenuto sintomo di un’umanità che non si è spenta definitivamente, baluardo di una coscienza che non si è assuefatta e che non ha smarrito definitivamente la capacità di riconoscere il bene e il giusto, anche se non riesce a trovare i mezzi per realizzarlo.
La lotta contro l’indifferenza dilagante è nuovamente una grande sfida spirituale e culturale che questa generazione è chiamata ad affrontare per rendere conto alle future generazioni.
Per questo è importante avere dei luoghi in cui – insieme – si tenta di guardare alla realtà a partire dai principi che affermano i diritti e il riconoscimento della dignità di ogni persona e – per noi credenti – a partire dalla proposta del Vangelo nel quale, con grande semplicità, Gesù ci invita a riconoscerlo, accoglierlo e servirlo nella persona dell’affamato, dell’assetato, di colui che è privo dell’essenziale, del forestiero, del malato e del carcerato.

Un percorso comunitario
Tre domande che, dopo quasi cinque anni, ancora attendono una risposta da ognuno di noi e dalle nostre comunità.
Queste tre domande, accanto alle quattro parole che papa Francesco ha consegnato nella messaggio per la Giornata mondiale dei migranti e rifugiati (accogliere, proteggere, promuovere, integrare), disegnano un percorso di riflessione e di discernimento che la parrocchia di Santarcangelo ha intrapreso da quasi due anni. Un vero discernimento deve arrivare a delle scelte concrete che rappresentino le risposte possibili al Signore che ci chiede di uscire dalla nostra indifferenza; senza queste scelte rischiamo anche noi di rimanere invischiati nella logica del talk show, nella realtà del salotto borghese dove si da voce ad ogni sentimento, ma, finito il tea o cambiato canale, ognuno ritorna alla sua indifferente beatitudine.

don Andrea Turchini