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Testimoni fino al sangue

alberto marvelli

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Caro Alberto,
non so come si chiami lo strumento che misura le scariche di adrenalina, ma certamente registro in me una eccitazione molto forte nello scriverti questa mail sull’ultima beatitudine: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”. Sarà per il destinatario a cui è indirizzata la presente – tu, proprio tu! – sarà per il recapito postale al quale è destinata – addirittura il paradiso! – sarà per il messaggio che veicola – arrivare a pensare che i miti, i misericordiosi, i puri di cuore sono beati, magari ci arrivo pure – ma che lo siano anche i perseguitati, questo proprio non finisce di sorprendermi.

Non è una follia definire beati quanti, solo a motivo della fede, vengono ingiustamente discriminati, violentemente oppressi, esclusi e martoriati? Le beatitudini sono il completo rovesciamento della nostra scala di valori, l’anti-antologia delle mode correnti di pensiero. Ma veniamo subito al dunque.

Il numero dei fratelli e sorelle che vengono perseguitati – incarcerati, torturati, stuprati, uccisi – è una cifra da brivido: circa 150milioni, di cui ben 100mila all’anno vengono trucidati, cinque ogni minuto. In nessuna epoca della storia, neanche in tutti e tre i primi secoli del cristianesimo, si è censito un numero così raccapricciante di perseguitati. Nel nostro mondo occidentale secolarizzato non è, però, questa la forma abituale della persecuzione, ma quella che si serve dell’opinione pubblica, non della spada, e ha oggi il suo veicolo privilegiato nei mezzi di comunicazione di massa: radio, televisione, internet. Mentre la prima forma di persecuzione combatte frontalmente la fede, il secolarismo tende a farla apparire irrilevante, o addirittura un rimasuglio di idee superate, o di sentimenti ancestrali, come la paura della morte, il terrore panico dell’ignoto, la minaccia delle forze oscure della natura. Insomma la fede sarebbe qualcosa di irrazionale, uno stadio ancora immaturo dell’umanità, destinato ad essere superato dalla ragione e dalla scienza. Siamo nel solito abbaglio, formulato con lo slogan terroristico, sdoganato in tutte le salse: “Chi crede non pensa, chi pensa non crede”.

Ma perché meravigliarsi della persecuzione, sia nella sua forma cruenta, sia nell’altra, non meno terroristica e violenta, della emarginazione strisciante? Non devo temere quando mi perseguitano, ma piuttosto se non mi perseguitano. Perché nel primo caso io verifico il test più attendibile di essere cristiano; nel secondo c’è l’alta probabilità che io non lo sia davvero. Infatti tutti quelli che vogliono vivere a misura di Cristo, prima o poi dovranno incontrare la persecuzione, come lui stesso aveva detto: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. E questo per il semplice fatto che la vita cristiana è troppo alternativa alla “mondanità”, come la chiama il nostro papa Francesco, per non doversi scontrare con il “mondo”. Sono due concezioni opposte della vita, assolutamente inconciliabili, come aveva previsto Gesù. Il contrasto, del tutto irriducibile, si verifica anche negli strumenti di lotta: il cristiano deve lottare con la spada della verità e lo scudo della pazienza; il mondo pretende la ragione con la forza e si difende con l’inganno.

Ma ora, caro Alberto, vorrei rileggere con te le testimonianze di alcuni martiri di questi ultimi anni, che mi aiutano a capire in che senso i perseguitati per la giustizia sono beati. Penso ai sette monaci trappisti trucidati circa vent’anni fa a Tibhirine, in Algeria, da un gruppo di fondamentalisti islamici, una vicenda raccontata in un film avvincente, Uomini di Dio (2010). Pochi giorni prima, quando la tragica fine diventava una possibilità sempre più incombente, il priore Dom Christian de Chergé aveva scritto un testamento spirituale che resterà come una delle espressioni più sublimi della spiritualità cristiana del martirio:
“Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito”. E concludeva rivolgendosi direttamente a colui che un giorno lo avrebbe ucciso: “E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo «grazie», e questo «ad-Dio» nel cui volto ti contemplo.
E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, Padre di tutti e due. Amen! Inch’Allah”.

E questa è la testimonianza di Shahbaz Batthi, ministro pakistano per le minoranze religiose, morto martire a 35 anni.
“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita”.
E così avvenne il 2 marzo 2011.
Ecco allora perché i perseguitati sono beati. Perché non si è dato nulla, finché non si è dato tutto. Gesù lo aveva detto: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. E ancora: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici”.
Grazie, caro Alberto, per avermelo ricordato.
Ora ricevi i miei saluti più grati e cordiali.
Con un forte abbraccio

Francesco Lambiasi

Nelle foto da sinistra: dom Christian de Chergé, don Pino Puglisi, mons. Oscar Romero, Alberto Marvelli, Sophie Scholl, Vittorio Bachelet, Shahbaz Batthi