Home Attualita “Da ventitre anni la mia vita con gli zingari Rom”

“Da ventitre anni la mia vita con gli zingari Rom”

rom-a-riminiNo ai Campi Rom. Cacciamoli via. Sono tutti ladri… La campagna elettorale, tutta impostata sulle paure e poco sulle proposte, non facilita certo in questi tempi riflessioni pacate sul tema. L’11 maggio ci ha provato la comunità Papa Giovanni XXIII, organizzando a Forlì un convegno per tracciare le linee di vicinanza ai popoli Rom e Sinti nei prossimi anni.
Al convegno era presente anche Annalisa (il nome è di fantasia) che ha abitato con i nomadi, prima in roulotte e poi in missione e che per 8 anni è stata in quello che era il campo rom di via Portogallo a Rimini, prima della sua chiusura. Vi arrivò nell’estate del 1993 e rimase a condividere la vita con le loro famiglie, vivendo in una roulotte, fino al gennaio del 2001. Poi dal novembre 2001 è stata al fianco dei Rom in terra di missione, per una decina di anni nel sud-est asiatico e nel 2013 in Nepal. Dal 2015 è ritornata al fianco di alcune famiglie in Italia. A lei chiediamo di raccontarci la storia della “condivisione diretta con i popoli Rom e Sinto” della Comunità Papa Giovanni XXIII.

Come è iniziata questa esperienza, che per te continua da 20 anni?
“Il primo incontro della Comunità Papa Giovanni XXIII con il popolo Rom e Sinto avvenne a Rimini nell’89, sull’onda dell’entusiasmo dirompente di don Oreste. Quell’anno un gruppetto di famiglie, appena arrivate dalla ex Jugoslavia, si erano sistemate in un parcheggio dove già sostavano alcuni Sinti. Subito si sollevò la forte reazione della popolazione. Così in poco tempo il sindaco aveva emanato un decreto di sgombero forzato. Don Oreste era intervenuto personalmente nel prendere le difese delle famiglie Rom, per impedire lo sgombero dall’area occupata. Da quel momento è iniziato un lungo cammino di alcuni membri della Papa Giovanni con i popoli Rom e Sinti; il nostro è stato un percorso irto di ostacoli, incomprensioni e battaglie; eppure ha dato e sta dando buoni frutti”.

E cosa avete iniziato a fare?
“Ci coinvolgemmo nella mediazione con istituzioni, servizi sociali, comuni, scuole e cooperative per tentare di rimuovere la coltre di paure, pregiudizi e incomprensioni che ostacolavano il rapporto con queste famiglie. Volevamo promuovere dei passi verso l’integrazione sociale e scolastica dei loro bambini, e chiedevamo la regolarizzazione dei documenti per tutti.
A Rimini abbiamo creato nel tempo una rete di interventi che hanno coinvolto le istituzioni civili, diverse altre associazioni come Caritas, Agesci, Rinnovamento nello Spirito, Enaip. Ognuno ha fatto la sua parte contribuendo con progetti; abbiamo organizzato attività di doposcuola e animazione, campeggi estivi, gite scolastiche. Abbiamo anche seguito dei percorsi scolastici di prima alfabetizzazione per adolescenti, e di avviamento professionale per l’inserimento degli adulti nelle cooperative. Abbiamo promosso la creazione di borse lavoro.
Nel frattempo, cresceva in noi la convinzione dell’importanza che questo popolo, che non ha una nazione propria, trovasse uno spazio dignitoso per vivere, con un riconoscimento anche legale. Abbiamo seguito l’iter delle leggi che tutelano la presenza dei Rom in Italia, promuovendone il rispetto. Abbiamo cercato di regolarizzare il più possibile le presenze dei Rom, aiutandoli con i permessi di soggiorno; solo così i nostri amici hanno potuto godere dell’assistenza sanitaria e hanno potuto cercare un lavoro”.

Che legame si è creato?
“Il legame che è nato con queste famiglie si è consolidato pian piano portando a diverse forme di condivisione di vita con loro: ci sono Rom accolti nelle nostre case famiglia, siamo andati a vivere con loro nei campi nomadi, nelle roulotte; oppure siamo per loro dei ponti con la realtà sociale circostante. La vita condivisa con loro 24 ore su 24 per me è stata una vera palestra; ho imparato ad accogliere la diversità. La cultura Rom non è una minaccia da cui difenderci, ma una risorsa da partecipare agli altri per costruire il bene comune. In questi anni non sono mancati i conflitti, le incomprensioni. Ci sono state anche provocazioni forti, ma queste hanno contribuito a far crescere delle relazioni che oggi sono autentiche e mature”.

E dunque qual è oggi l’approccio?
“La mia esperienza con i Rom di Rimini è proseguita fino a quando il campo di via Portogallo ha chiuso: nel 2001 il Comune di Rimini li coinvolse, discutendo ampiamente con loro, in un progetto di redistribuzione sul territorio. Come Comunità rimaniamo al loro fianco rispondendo ai bisogni che di volta in volta emergono. Alcuni giovani che hanno sbagliato sono inseriti in progetti che la Comunità ha attivato in alternativa al carcere. Negli ultimi anni la Papa Giovanni ha sviluppato una nuova modalità: una sorta di ‘condivisione di vicinato’. Si tratta di famiglie intere, con le loro roulotte, che vengono ospitate negli spazi adiacenti alle nostre strutture. Viviamo con i Rom a Rimini, grazie ad uno spazio che è a fianco della capanna di Betlemme nella città romagnola; a Forlì i Rom sono nel Villaggio della gioia, a Bologna in una roulotte posteggiata vicino ad una comunità terapeutica per adulti con problemi di dipendenze. La stessa accoglienza si vive in altre parti d’Italia”.

Marco Tassinari