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Rivoluzionario Mosè

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L’opera di Rossini è andata in scena al Teatro Verdi di Pisa in un nuovo allestimento con le scene dell’artista cubano José Yaque  

PISA, 9 novembre 2018 – Era stato lo stesso Rossini a considerarlo un oratorio. In verità, la definizione ufficiale è ‘azione tragico-sacra’, resa necessaria perché quando Mosè in Egitto andò in scena per la prima volta (marzo 1818), a quaresima iniziata, la dicitura ‘melodramma’ sarebbe apparsa poco appropriata.

Di fatto, con la sua struttura che prevede poche arie e numerose scene d’insieme, è un’opera a tutti gli effetti e anche delle più innovative: del resto il periodo napoletano di Rossini è scandito da notevoli sperimentazioni, che lo smaliziato pubblico partenopeo era in grado di cogliere e apprezzare, assai più di quello veneziano o milanese. Nonostante la sua innovatività e le splendide pagine musicali tutto sommato Mosè rimane un titolo di rara esecuzione, almeno in Italia.

Osiride-Mambre-Faraone-Amalte

Un nuovo allestimento è appena andato in scena al Teatro Verdi di Pisa: una sorta di seconda inaugurazione, dopo l’insolito The Beggar’s Opera del mese scorso. L’allestimento, inoltre, offriva un’interessante rarità: scene e costumi di José Yaque (insieme a Valentina Bressan). L’artista cubano ha concepito quattro totem sbilenchi, il cui basamento era costituito da materiali di riciclo: un effetto molto suggestivo che sembra evocare la decomposizione della materia e la massiccia invadenza della plastica. L’attraversamento del Mar Rosso, sempre così problematico da rendere sulla scena, è stato risolto in modo efficace, grazie a una specie di rete (in cui sono impigliati materiali di varia natura, non certo pesci) che prima si abbassa per permettere il passaggio degli Ebrei, poi si solleva intrappolando gli Egizi, quasi a lanciare un grido d’allarme per quella che è l’attuale condizione dei nostri mari.

Peccato che la regia di Lorenzo Maria Mucci, priva di una sua autentica fisionomia, non abbia colto le sollecitazioni né dell’impianto scenico né dalla partitura, limitandosi a regolare ingressi e uscite di scena dei personaggi.

Ma, oltre alle difficoltà legate all’allestimento, il Mosè pone soprattutto problemi esecutivi. Non basta che gli interpreti riescano a venire a capo delle difficoltà canore: devono saper volgere il virtuosismo della scrittura vocale a fini espressivi, perché – a dispetto della cattiva reputazione di cui godeva e da lui stesso alimentata con qualche civetteria – il librettista Andrea Leone Tottola ha ideato personaggi dotati di un preciso spessore psicologico, che la musica sottolinea. Il cast di Pisa, nell’insieme, si è difeso onorevolmente.

A cominciare dalla protagonista femminile, il mezzosoprano moldavo Natalia Gavrilan, che ha affrontato con sicurezza le difficili escursioni di altimetria della scrittura di Elcia (ruolo concepito per Isabella Colbran), riuscendo a trasmettere le lacerazioni – lei ebrea, andata sposa al figlio del faraone – fra i sentimenti amorosi e i doveri legati all’appartenenza etnica e religiosa, che ne fanno un personaggio quasi anticipatore di certe eroine verdiane. Federico Sacchi è riuscito a delineare Mosè attraverso una sicura linea di canto: peccato che la mancanza di rotondità vocale gli abbia impedito d’imprimere al protagonista l’autorevolezza necessaria a una figura di patriarca. Grande impegno ha profuso Rossini nella definizione di Amaltea, moglie del faraone: ruolo affidato a Silvia Dalla Benetta, che ha saputo mettere a frutto la propria estensione vocale, pur con i limiti di una certa genericità. Ruzil Gatin, impegnato nell’ardua scrittura di Osiride, ha sfoderando apprezzabili mezzi, discostandosi dal cliché del tenore contraltino. Un convincente Faraone, sicuro e preciso, il basso Alessandro Abis. Fra i personaggi minori, il tenore Matteo Roma ha mostrato un’apprezzabile presenza vocale nella parte di Aronne, mentre l’altro tenore, Marco Mustaro è riuscito a caratterizzare con efficacia il personaggio negativo di Mambre. Incisivo il piccolo intervento del mezzosoprano Ilaria Ribezzi, nel ruolo di Amenofi.

Estraneo allo stile rossiniano è apparso invece il direttore Francesco Pasqualetti, che ha tratto dall’Orchestra della Toscana sonorità poco bilanciate quanto a spessore fonico, scandite da una certa piattezza dinamica, tendente a privilegiare l’eccessivo volume. Più puntuale la prova del Coro Ars Lyrica, preparato da Marco Bargagna.

Giulia Vannoni