Home TRE-TuttoRomagnaEconomia A Rimini le pensioni più basse. E non è un caso

A Rimini le pensioni più basse. E non è un caso

Nel 2050, secondo le ultime previsioni, ci saranno più pensionati che occupati. Non è difficile comprendere come questo dato possa rappresentare un problema non indifferente, perché le pensioni si pagano con i contributi di chi oggi lavora. Il rischio che si corre è quello di una forte svalutazione, come in realtà in tanti prevedono, delle pensioni stesse. Certamente il tema costituirà un banco di prova anche per il Governo appena insediato, quindi è meglio capirci qualcosa.

Per cominciare una notizie che forse sorprenderà molti: dal 2012 al 2017, pensionati e pensioni Inps non sono aumentati, bensì diminuiti. In Italia e in Romagna: nella prima i pensionati sono scesi da 16.6 a 16 milioni, nelle province di Rimini da 87 a 85mila, di Forlì-Cesena da 117 a 112mila e, infine, in quella di Ravenna da 122 a 116mila. Al contrario, negli stessi cinque anni, i redditi da pensione medi annui (ricordando che una persona può essere titolare di più pensioni), seppure di poco, sono cresciuti da 16.600 euro a 17.800 a livello nazionale, più 7 per cento, mentre a Rimini da 15.000 a 16.600 euro, a Forlì-Cesena da 15.900 a 17.700 euro e, a Ravenna, da 16.800 a 18.700 euro.

A Rimini le pensioni più basse. E le donne…

Come si può facilmente notare, a Rimini, dove molti lavori sono stagionali e consentono versamenti limitati, il reddito pensionistico medio annuo è più basso, tanto nei confronti di quello nazionale, come di quelli percepiti nelle altre province romagnole. Solo nel 2017, un pensionato riminese ha preso 2.600 euro in meno della media regionale, che fanno 215 euro meno al mese.

Dato che trova conferma nel maggior numero di pensionati che devono accontentarsi di un reddito da pensione più basso. Infatti, percepiscono meno di 1000 euro mensili quasi quattro pensionati su dieci a Rimini, che diventano però tre su dieci a Forlì-Cesena e ancora meno a Ravenna. La situazione peggiora, dappertutto, per le donne, che sono più della metà dei pensionati e sono concentrate nelle fasce di reddito pensionistico più basse. L’unico vantaggio (relativo) per chi prende fino a 15mila euro l’anno è una tassazione che si ferma al dieci per cento del reddito pensionistico.

Il mito da sfatare

Infine un mito, forse da sfatare, sull’età della pensione, che sarebbe troppo avanzata: un pensionato su cinque ha attualmente meno di 64 anni. Vuol dire che è andato in pensione molto prima. Infatti, tra i nuovi pensionati del 2017, quelli di vecchiaia hanno una età media di 63 anni e di invalidità di 55 anni.

Come anticipato, sulle pensioni si accende il dibattito, raramente coniugando il giusto desiderio di mettersi a risposo, anche se tanti, in buona salute, preferirebbero continuare, magari ad orario ridotto, con le risorse disponibili. Allora è utile tenere presente che nel 2017, l’Italia ha speso per le pensioni il 15.7 per cento del PIL, quando la Germania si è fermata al 9.5 per cento e la Francia al 15 per cento, mentre la media dell’Unione Europea è poco sopra l’11 per cento. Spesa destinata a crescere, in Italia, fino al 16.8 per cento nel 2030 (10.6% in Germania e 15.1% in Francia), quando la generazione nata nel primo dopoguerra (quella del cosiddetto “baby boom”) si ritirerà dal lavoro.

Da notare che l’Italia è il Paese che, con Grecia, Francia e Finlandia, in Europa spende di più per le persone anziane, ma  di meno per le famiglie, la disoccupazione, l’educazione e la salute.

Quando la coperta è corta bisogna trovare un equilibrio tra le voci, tanto più se il debito pubblico ci costa 60-70 miliardi di euro di soli interessi l’anno. La botte piena e la moglie ubriaca non è una ricetta sostenibile.