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Quella depressione democratica…

La depressione è una malattia seria. Secondo l’OMS ne soffrono 2,6 milioni di persone in Italia e oltre 350 milioni nel mondo. Per la popolazione italiana la probabilità di ammalarsi nel corso della vita è del 6,5% nei maschi e del 13,4% nelle femmine e in generale le donne hanno un rischio quasi doppio di essere colpite (64% vs 36%). Ricerche e proiezioni, poi, dicono che la depressione diventerà una malattia così massiccia che, assieme alla crisi economica, porterà alla povertà a causa dell’incapacità di mantenere una vita sociale e lavorativa costante. La dottoressa Melania Nicolò, originaria di Foggia e riminese d’adozione, racconta i suoi studi nel mondo della depressione, una malattia mentale scatenata da fattori biologici, psichici, ambientali e genetici, che come ogni altra malattia che colpisce il corpo, deve essere curata con strumenti adeguati.
Con una laurea specialistica in psicologia clinica e di comunità, si trasferisce a Rimini nel 2001, dapprima tirocinante presso il Colosseo di Rimini nel reparto di tutela minori, ha poi continuato a lavorare per l’Azienda con progetti sperimentali, tra gli altri quello molto importante sulla depressione post parto, fino al 2009, anno in cui ha deciso di dedicarsi alla libera professione.

Quali sono i tipi di depressione e chi ne viene maggiormente colpito?
“Tutto passa per un disvalore perché la depressione che può essere episodica o un disturbo, è una patologia che si aggancia ad una percezione di sé svalutante. Le donne hanno una doppia predisposizione a sviluppare questa malattia perché hanno una componente ormonale che facilita questa disforia. Vengono colpiti anche i bambini molto piccoli ed è il genitore che deve riconoscerne i sintomi; poi con l’adolescenza tutto si acutizza, perché già è presente uno stato depressivo fisiologico, che si sviluppa in depressione. Diciamo quindi che tutti possono essere colpiti da questa malattia, perché è una malattia democratica”.

Quali sono i sintomi e come possono intervenire i familiari?
“I segnali gravi della malattia sono più o meno gli stessi per tutti. Quello che cambia è l’evento scatenante, come un blocco nello studio, la perdita della persona cara nella relazione di coppia o la perdita di un genitore. Queste cose vanno così ad agganciarsi ad una fragilità di fondo dove c’erano fattori di rischio che fino ad allora sono stati resilienti. I sintomi infantili si sviluppano con cefalea, indolenza, iperattività, problematiche scolastiche e talvolta preoccupazione per la propria morte o per la morte degli altri. Si nota la tendenza a non voler far nulla, a ripetere giornate sempre uguali, trascorrendo il tempo in una stanza, davanti al computer e ai social, che amplificano la difficoltà dell’adolescente a relazionarsi con il mondo esterno, tramutandolo in un incapace sociale. Non serve però scuotere i ragazzi in maniera esagerata per farli uscire di casa, ma è utile provare a condurli da chi può aprire un canale comunicativo, un adulto che può fungere da figura genitoriale terapeutica che li conduce fuori dalla confusione”.

I ragazzi trascorrono molte ore a scuola. Non sarebbe utile avere un consulente scolastico che si occupi di queste problematiche?
“Il consulente scolastico esiste da circa 30 anni anche in Italia, si chiama CIC (Centro Informativo di Consulenza). Non tutte le scuole ce l’hanno, ma a Rimini la maggioranza ne prevede uno. Il problema vero è come questo viene promosso. I ragazzi spesso utilizzano il consulente scolastico per saltare un’ora, per non essere interrogati. Invece i professori, il preside e i genitori devono promuovere questa opportunità nella maniera più seria possibile. È un aiuto importante che serve poi ad instradare un ragazzo verso uno psicologo esterno che lo possa così aiutare concretamente. Ho dei colleghi in diverse scuole, a Rimini, che spesso mi mandano dei ragazzi in terapia. Se lo sportello esiste ma non viene usato nella maniera corretta, si perde una grande opportunità”.

Come si mette in atto la presa in carico di un malato?
“Di solito la situazione prevede la presa in carico del paziente da parte di uno specialista dopo essere stati visitati dal medico di base. Uno psicoterapeuta, ossia uno psicologo specializzato e uno psichiatra raccolgono i sintomi e assieme decidono che tipo di cura applicare e come seguirlo, anche sul piano farmacologico. E così si parte con le terapie. A questo iter, che in realtà è immediato e tempestivo, subentrano talvolta delle complicazioni date da una famiglia che minimizza o dal soggetto che pensa di potersi curare da solo. Non meno pericoloso è anche il medico di base che somministra una medicina senza tenere presente che il farmaco serve per poter iniziare una terapia psicologica, e che poi andrà scalato fino alla cessazione con l’aumento delle sedute dal terapeuta”.

Che cos’è la Coaching Therapy?
“I ragazzi negli anni sono cambiati in maniera significativa. Gli adolescenti sono più aperti e quando vedo un ragazzo desideroso di capire se stesso e di guarire, allora propongo una nuova metodologia di terapia, la <+cors>Coaching Therapy<+testo_band>. Questo tipo di terapia comporta la mia presenza h24, un grandissimo impegno, perché credo sia necessario farli sentire al sicuro. Faccio un esempio: una ragazzina di quarta liceo scientifico, mia paziente, mi ha scritto che esce con il ragazzo che le piace e mi ha mandato un messaggio per sapere cosa si sarebbe dovuta mettere. Se io avessi tenuto un approccio tradizionale alla psicoterapia, avremmo parlato di questo durante la seduta, nella quale poi avrei fatto le mie raccomandazioni sul comportamento da tenere durante l’appuntamento. Invece in questo caso la paziente mi ha mandato circa 20 outfit differenti tramite WhatsApp e l’ho aiutata a decidere cosa mettersi ragionando su cosa comunica un abito piuttosto che un altro. È una tecnica americana dove quello che si paga è la reperibilità di una persona che per te è sempre presente. È molto impegnativo per il terapeuta, ma sapere che io sono sempre disponibile a rispondere li manda lontani dalla confusione e dallo scompenso”.

Dottoressa, è al corrente del fatto che molte persone si rendono conto di avere dei disturbi ma non si recano da un terapeuta per paura di non arrivare mai ad una conclusione?
“Noi psicoterapeuti abbiamo il dovere di lavorare in scienza e coscienza. Quando vedo che il paziente può allungare un po’ di più la frequenza delle sedute io consiglio di farlo, perché sostengo la sperimentazione fuori dal mio studio. Al raggiungimento degli obiettivi terapeutici, con cautela io sospendo le sedute per non incappare nel rischio della dipendenza dal terapeuta. Se il terapeuta ha lavorato nella maniera giusta per lui allora deve sentirsi libero di vivere la propria quotidianità. Sono fermamente convinta che se un paziente percepisce dal terapeuta la fiducia nel lavoro svolto manderà altri che hanno bisogno, non restando così intrappolato in una rete patologica di dipendenza dal terapeuta”.

La depressione può essere uno strumento positivo?
“Dalla depressione non si guarisce, ma ci si può curare. Non tutti riescono ad uscire in egual modo dalla depressione: per qualcuno è un ricordo, per altri è un’angoscia sempre presente ma per alcuni è un’alleata da mettere in campo con una potenzialità, con una lettura positiva alla propria malattia. Ci sono persone che a distanza di anni mi dicono che la malattia gli è servita, come una cosa alla quale si ritorna per esprimere il meglio nel proprio lavoro e nei propri rapporti sociali. La psicoterapia serve a questo: accogliere la sofferenza, dare una spiegazione al sintomo e imparare a dare una voce e un nome a queste emozioni e a questo dolore. È una rilettura e riscrittura della storia di un individuo, facendo emergere le proprie potenzialità e attrezzandosi con gli strumenti adeguati per vivere nel quotidiano. Ed è così che si raggiunge un equilibrio, attraverso la capacità di gestire le difficoltà. Il cosiddetto Problem Solving che ci aiuta ad affrontare ogni difficoltà senza perdere noi stessi.

Sara Ceccarelli