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Quando “two is meglio che one”

Ricordate quella vecchia pubblicità con uno Stefano Accorsi non ancora famoso? Quella del two is meglio che one? Qui non si parla di gelati ma di lingue. Meglio conoscerne due che una. Ma anche tre o quattro. E impararle fin da bambini costa meno fatica, il risultato è migliore e le difficoltà sono affrontabili. A patto, però, che non si esageri, costringendo il piccino a fare una cosa controvoglia, perché a quel punto il rischio è quello di fargli spendere un sacco di energia e di tempo, rendendolo poco… bilingue. Della serie, prima di essere poliglotti, i bambini devono essere sereni e felici.
Eppure i bimbi sono nati per imparare le lingue perché “a differenza di quello che si è sempre sentito dire non è vero che è meglio aspettare che la prima lingua sia ben stabilita prima di impararne un’altra”.
A sostenerlo è Anna Cardinaletti, docente di Linguistica italiana.
“Non esiste il rischio che un bambino non sia sicuro in nessuna delle due lingue imparate contemporaneamente”. Insomma, al contrario di tutti i pregiudizi che ancora ci sono sull’imparare una o più lingue da piccoli, la verità è che noi essere umani siamo fatti per imparare più idiomi.
“La ricerca linguistica degli ultimi 50 anni – continua la dottoressa Cardinaletti – ha dimostrato che il nostro cervello è predisposto per imparare le lingue e che ha un sistema per .
Una lingua la si impara, infatti, ascoltando.
“Un neonato sente il flusso sonoro emesso dalla mamma e inizia ad analizzarlo, per capirne i suoni, cioé le parole. Da adulti non ce lo ricordiamo più, ma in sostanza succede quel che può accaderci ancora oggi quando sentiamo uno straniero parlare nella sua lingua, a noi sconosciuta. All’inizio non capiamo nulla e non abbiamo modo di segmentare quel flusso di frasi. Ecco, quella è l’esperienza del bambino piccolo. Il nostro cervello, però, ha degli strumenti per analizzare questa stringa continua di suoni e, dal momento che abbiamo questa capacità, essa è attiva per più di una lingua contemporaneamente”.
Capacità che nella primissima infanzia è “In sostanza, quello che un bambino fa è analizzare degli indizi, che sono all’inizio di natura prosodica (la prosodia è la parte della linguistica che studia l’intonazione, il ritmo e la durata del linguaggio parlato) e che il cervello sviluppa inconsapevolmente in una grammatica, cioè in un sistema di regole che gli permettono di costruire frasi, per ogni lingua a cui è esposto”.
C’è poi un altro aspetto di fondamentale importanza. I bambini che studiano lingue diverse hanno una maggiore consapevolezza delle diverse culture e degli altri. Inoltre riescono meglio dei monolingue a svolgere diverse attività contemporaneamente e a focalizzare l’attenzione. Spesso imparano anche a leggere precocemente.
Lo sanno bene Stefano e Michela, riminesi di stanza a San Marino. Hanno educato le loro tre figlie sin da piccole al bilinguismo seguendo un metodo di un ricercatore che coniuga didattica e gioco, e facendo vedere alle figlie film in lingua originale (inglese) e ascoltare musica. Risultato: al primo soggiorno a Londra, le due ragazze più grandi se la sono cavata egregiamente.
Insomma, chi pensava che il proprio bimbo o la propria bimba fosse troppo piccolo per avventurarsi alla scoperta di un’altra lingua non avendo ancora una buona padronanza dell’italiano, può mettersi il cuore in pace. Perché two is meglio che one.

Francesco Barone