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Quando l’orafo è un serial killer

Al Maggio Musicale Fiorentino il nuovo allestimento di Cardillac,  opera di Hindemith fra le più importanti del novecento storico  

FIRENZE, 12 maggio 2018 – Pur non essendo riconducibile alle consuete – e un po’ riduttive – categorie con cui si etichettano gli autori del novecento storico, Hindemith è certamente uno dei giganti del secolo scorso. Soprattutto per quanto riguarda il teatro musicale. E Cardillac, avvincente thriller che sembra occhieggiare a dinamiche quasi verdiane fra i personaggi (il cieco affetto della figlia per l’orafo pluriomicida ricorda, rovesciato, il patologico rapporto fra Rigoletto e Gilda, baritono e soprano tanto in Verdi quanto in Hindemith), rappresenta forse un tentativo fuori tempo massimo di aggiornare l’opera romantica, da parte di un compositore che si era formato nell’alveo della più rigorosa e austera tradizione germanica. Del resto il soggetto del Cardillac, che il librettista Ferdinand Lion trasse da una novella di Hoffmann (La signorina di Scudéry) ambientata a Parigi a fine seicento, affronta una tematica tipica del romanticismo tedesco e ripercorsa da Hindemith anche in altre opere: la dolorosa solitudine dell’artista di fronte alla società.

Un nuovo allestimento di Cardillac (nella prima e più efficace versione del 1926: il compositore era solito revisionare i propri lavori, né questo fa eccezione) ha inaugurato l’ottantunesimo Maggio Fiorentino, ma già nel 1991 il più antico festival musicale italiano ne aveva tenuto a battesimo una memorabile edizione con la bacchetta di Bruno Bartoletti per la regia di Liliana Cavani. Questa volta sul podio è salito Fabio Luisi, neodirettore musicale del Maggio, dove è subentrato a Zubin Mehta, mentre la firma registica è di Valerio Binasco, al suo esordio in uno spettacolo operistico. Le belle scene di Guido Fiorato, che creano senza soluzione di continuità uno slittamento fra spazi aperti e interni delle abitazioni (concepite con un realismo che ricorda Hopper), tratteggiano una generica città moderna e non la Parigi prevista dal libretto. I costumi di Gianluca Falaschi evocano una visualità anni venti e le luci di Pasquale Mari gettano ombre sinistre e spettrali su una folla spesso minacciosa, che in Cardillac ha un ruolo protagonistico: ad assegnargliela non è solo Hindemith, consapevole di come la Germania stesse per scivolare nel baratro, ma pure una regia che insiste molto sull’aspetto della ricerca del capro espiatorio. Così, nel tentativo d’identificare il serial killer che sta seminando panico in città, il popolo all’inizio si accanisce su un povero sordomuto (qui è anche di colore), mentre nel terzo atto – rifiutandosi di credere alla colpevolezza di Cardillac – si scaglia con crudeltà sul mercante ebreo.

Luisi ha guidato l’orchestra fiorentina con grande rigore, ottenendo sonorità nitide e trasparenti, in grado di esaltare tutta la raffinatezza contrappuntistica di una scrittura dove prevale l’incessante varietà dei fiati, che sembrano quasi incalzare – fino ad averne il sopravvento – gli archi. Meno efficace la valorizzazione dell’andamento vocale e, soprattutto, troppo anestetizzata quella sensualità – un’oasi poi contraddetta dal colore livido del resto dell’opera – che, pur tra le tenebre, aleggia nel primo atto.

Protagonista il baritono Martin Gantner: un Cardillac solido, in grado di trasmettere il completo disinteresse all’affetto filiale insieme a quella febbrile follia che lo rende incapace di separarsi dai suoi gioielli. Accanto a lui, il soprano Gun-Brit Barkmin è apparsa efficace soprattutto nel comunicare il suo attaccamento al padre. Sempre sicuro nella linea di canto il tenore Ferdinand von Bothmer, elegante ed incisivo nei panni dell’Ufficiale innamorato della figlia di Cardillac. Il ruolo della Dama era affidato a Jennifer Larmore, cantante riciclatasi – dopo tanto Rossini – in questa seconda parte della carriera come novecentista. Ottimo il contributo del suo partner, il tenore Johannes Chum, un espressivo Cavaliere.

Resta semmai qualche perplessità sulla regia, forse per un certo eccesso didascalico. Svela subito il mistero e toglie così ogni suspence l’immagine dell’orafo che, al levar del sipario, penetra in un’abitazione dove uccide padre e madre, lasciando una bimba orfana intenta a trastullarsi con il suo orsacchiotto. O, forse, è un modo per sottolineare come venga negata l’evidenza da chi si rifiuta di vedere quanto è sotto gli occhi di tutti.

Giulia Vannoni