Home Attualita “I profughi? Ospitali tu!” Us po fe, Mario docet

“I profughi? Ospitali tu!” Us po fe, Mario docet

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Sei favorevole all’accoglienza per profughi e migranti? Anche questo sembra essere un referendum. Solo che, spesso, a chi risponde sì viene ribattuto: “Allora ospitali a casa tua!”.
È una domanda retorica e fastidiosa, perché non porta il discorso da nessuna parte. Si veste da polemica acuta, ma è una gran cretinata, perché sono problemi di portata più ampia, che coinvolgono tutta una nazione e vanno anche oltre. Forse solo l’abuso del termine “buonismo”, usato come risposta ad ogni richiesta di civiltà, è più urtante dell’ospitali a casa tua. In ogni caso è una domanda a cui spesso non si risponde, sia per fastidio, che per l’assoluta mancanza di utilità.

C’è chi invece una risposta l’ha saputa dare. Una bella risposta, che probabilmente non basterà a zittire i pappagalli delle frontiere chiuse che ripetono a oltranza la solita omelia dall’aiutiamoli a casa loro, e de i nostri migranti erano diversi, ma che può far riflettere chi è disposto a guardare trave e pagliuzza nel proprio occhio.
È Mario Galasso, riccionese, coordinatore di servizi socio sanitari, che ha deciso, in accordo con tutta la famiglia, di ospitare a casa sua Diouf Mamadou. Proprio quel Mamadou che abbiamo intervistato alcuni mesi fa.
Una decisione semplice, eppure non facile, che ha coinvolto Mario, la moglie Laura e i figli Chiara e Matteo.

“Difficile dire con precisione come sia nata l’idea – racconta Laura – per me è impossibile non fare un paragone tra i ragazzi come Mamadou e i miei figli, che hanno la stessa età, eppure non possono neanche lontanamente immaginare le difficoltà vissute dai migranti, la separazione da casa, il viaggio, il rischio della vita”.
“Come si dice in romagnolo: – aggiunge Mario – Us po fe”. Semplicemente si può fare. Non costa così tanto, anzi.
“Per fare spazio abbiamo dovuto togliere dei muri, dei mattoni, ma alla fine siamo noi che ci siamo arricchiti. Anche perché i muri si fanno per tenere fuori, ma alla fine costringono dentro chi li fa”.

Questo è un po’ il succo della storia: se si può, se riesco, perché no?
“Abbiamo sistemato casa, trovato spazio per lui e gli abbiamo dato un letto e un armadio – dice Chiara, la figlia piccola di Mario, coetanea di Mamadou – è stata una cosa che non mi aspettavo, capitata all’improvviso; ma spesso c’è da dire che le cose belle capitano così, all’improvviso, non programmate”.
E una grande sorpresa è anche quella che ha vissuto Mamadou: “Quando mi è arrivato il permesso di soggiorno, hanno deciso di ospitarmi. Che fiducia hanno avuto a portarsi a casa uno sconosciuto, di giorno loro lavorano e io sono a casa loro da solo. Mi hanno dato persino le chiavi di casa”.

La convivenza tra Mamadou e i Galasso ha un altro aspetto che potrebbe creare attriti e che invece diventa un altro stimolo a imparare dall’altro: l’aspetto religioso.
“Mi hanno accolto a casa loro anche se sono musulmano e loro cristiani. Mi permettono di fare le mie preghiere”.
“Mamadou prega cinque volte al giorno – racconta Mario – il primo giorno che è arrivato ci ha chiesto dov’era la Mecca, lasciandoci tutti a bocca aperta. Dov’era la Mecca?! Poi la prima sera, dopo aver cenato, è corso in cucina a lavare i piatti e poi, quando ha finito, si è affacciato e ha chiesto: posso andare a pregare? Immaginate il nostro stupore e soprattutto quello dei nostri figli, nel vedere che per un loro coetaneo la preghiera non è un obbligo, ma la ricerca di serenità, ringraziamento”.

La convivenza è spesso complicata da entrambe le parti. Anche chi viene da fuori incontra situazioni a cui deve trovare risposta.
“Quando Mamadou è arrivato a casa nostra – prosegue Mario – ha subito chiamato suo padre. Non si sentivano da un anno e mezzo. Si è confrontato con lui sul fatto che era accolto da una famiglia cristiana. Il padre gli ha detto di non preoccuparsi, l’importante è che ci sia il rispetto reciproco”.
“Quello che abbiamo fatto noi – continua Mario – è un piccolo gesto, una piccola cosa, ma per noi è importante. Ci piacerebbe che potesse servire da esempio per altri. Per noi è stato impagabile vedere l’espressione di Mamadou la prima volta al cinema e condividere quei momenti con lui, anche la quotidianità. Penso che ci vorrebbe più coraggio da parte dei politici, il coraggio di schierarsi dalla parte di chi arriva. Dimostrare semplicemente che si può fare”.
Us po fe, dice Mario, ma a me viene in mente l’urlo del Dottor Frankenstein: Si Può Fare!
“È stato bello fare spazio nella nostra casa per accogliere Mamadou. Essergli vicino in un momento difficile e complicato della sua vita”, conclude Laura.

È una storia semplice, che non ha molto altro da raccontare. Una famiglia che decide di ospitare un ragazzo che ha vissuto delle difficoltà, e che qui studia e si allena. È vero, per fortuna non c’è la guerra in Senegal. I ragazzi e le persone che arrivano da quella parte dell’Africa non fuggono dai bombardamenti. Spesso però se ne vanno da un paese che non ha tanto da offrire, in cui l’agricoltura fatica a produrre abbastanza per tutti, e chi decide di andare via lo fa per cercare una vita migliore che qui, nonostante tutti i nostri problemi e le (giuste) lamentele, c’è. Ci sono le difficoltà, ci sono sacche di povertà, è difficile mettere da parte qualcosa, ma non così tanto da non poter condividere un pezzo della propria fortuna con altri, con chi ne ha bisogno, per un pezzo della loro e della nostra vita più o meno lungo. Ognuno secondo quello che succederà.
I Galasso lo hanno fatto, a modo loro. Con grande naturalezza. Senza ostentarlo, senza grandi proclami. Ora Mamadou, che nel maggio del 2016 ha ottenuto un permesso di soggiorno di due anni per motivi umanitari, sta affrontando un altro processo. Il Ministero dell’Interno, infatti, ha proposto appello contro la decisione del tribunale, chiedendo che la decisione venga annullata e il permesso revocato.
Nell’attesa che si svolga anche il ricorso il prossimo 13 dicembre – che speriamo si risolva bene, con la conferma del permesso di soggiorno – auguriamo a Mamadou di continuare a correre e di arrivare dove desidera.

Stefano Rossini