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I primi ospiti stranieri

Budapest Festival Orchestra ©Ian Douglas

Alla Rocca Brancaleone di Ravenna concerto della Budapest Festival Orchestra diretta da Iván Fischer, solista il soprano Anna Prohaska   

RAVENNA, 1 luglio 2020 – L’idea è quasi di normalità, se non fosse che gli orchestrali quando arrivano sul palco della Rocca Brancaleone hanno tutti la mascherina – per poi togliersela subito – e si dispongono a distanze inusuali, ciascuno solo davanti al proprio leggio. Così funziona in tempi di (post?) Covid 19. Ma è già un grande risultato. Il concerto della Budapest Festival Orchestra, unico insieme strumentale straniero ospite del cartellone (nelle precedenti serate sinfoniche ha suonato invece la Cherubini), riporta a quei confronti internazionali che da sempre hanno impreziosito il festival ravennate: un altro elemento di rassicurante normalità.

Il direttore Iván Fischer ©Marco Borggreve

Sul podio Iván Fischer, che di questa orchestra è stato il fondatore quasi una quarantina di anni orsono: uno dei migliori direttori oggi in circolazione, anche se in Italia non gode forse della notorietà che meriterebbe. Il maestro ungherese ha concepito un programma accuratamente calibrato e dalla forte valenza simbolica, che accostava il tedesco Wagner all’inglese Britten e all’austriaco Haydn, quasi a sottolineare un’ideale dimensione europea del grande patrimonio musicale.

La serata si è aperta con lo splendido Siegfried Idyll, il poema sinfonico – nella versione originale per piccola orchestra – che Wagner scrisse nel 1870 per la moglie Cosima in occasione della nascita del loro figlio Sigfrido. L’atmosfera avvolgente e il progressivo accrescersi d’intensità della musica, con quei fremiti sottili che l’attraversano, sono stati valorizzati da Fischer con la massima fluidità e, al tempo stesso, precisione. Il direttore è così riuscito a restituire il carattere intimo della pagina, con una spaziosità di tempi quasi da grande orchestra: un’impresa ancor più meritevole in un luogo aperto e di fronte a un pubblico che – non va dimenticato – era seduto a distanza (inevitabile, odierna, anomalia che purtroppo intacca il valore di affratellamento legato al rito musicale, emozione collettiva che ha bisogno di essere condivisa).

L’incanto si è prolungato con il secondo brano in programma: il ciclo vocale Les Illuminations di Britten (1939), costruito sull’omonima raccolta di versi e prose poetiche del francese Rimbaud. Solista Anna Prohaska, oggi tra le più accreditate interpreti del repertorio antico e novecentesco. Dotata di magnetismo e notevoli capacità espressive, il soprano austriaco è riuscita a catturare l’attenzione dello spettatore sfoderando una consumata abilità d’interprete: bisognava quasi trattenersi per non applaudire dopo lo spettacolare glissando vocale di Marine, così come al termine della quasi conclusiva Parade. Un elogio spetta ovviamente anche a Fischer, che ha saputo dosare alla perfezione le sonorità orchestrali, facendo avvertire nello stesso tempo tutta la consapevolezza operistica che affiora ininterrottamente dalla musica di Britten.

Il programma è proseguito – le norme attuali non consentono intervalli – con l’esecuzione della Sinfonia in re maggiore n. 104, l’ultima scritta da Haydn e nota come London (perché la première fu nel 1795 a Londra). Oltre a sottolineare l’inesauribile ricchezza timbrica della celeberrima pagina, Fischer ne ha enfatizzato soprattutto le contrapposizioni fra materiali tematici e colori orchestrali. Una lettura d’incredibile modernità, per niente scontata in un brano di repertorio: da un lato, il direttore sembrava guardare al ruolo cruciale svolto da Haydn nello sviluppo linguistico della grande tradizione classica, dall’altro, sembrava alludere a un più generale clima odierno, segnato da contrapposizioni sempre più forti. Ulteriore elemento di riflessione sul nostro tempo.

Giulia Vannoni