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Più religione più città dell’uomo

Piergiorgio Grassi

Per quarant’anni professore di Filosofia delle religioni e Sociologia delle religioni e direttore per numerose stagioni (dopo la morte dell’iniziatore Italo Mancini) dell’Istituto superiore di scienze religiose di Urbino, Piergiorgio Grassi ha diretto riviste e animato dibattiti. Protagonista di una stagione politica riminese con un impegno diretto a Rimini e in provincia, Grassi uscito dai ruoli dell’Università di Urbino per raggiunti limiti d’età, prosegue però incessante la sua attività di intellettuale. È fresco di stampa il suo ultimo volume, Religione polis, uscito presso QuattroVenti, l’editrice storica dell’Università di Urbino, nella collana “Filosofia e storia delle idee” diretta da Luigi Alfieri, Ilvo Diamanti e dallo stesso Grassi.

Il suo ultimo volume ha un sottotitolo che suscita curiosità: Un archivio del Novecento. Ci aiuti a capire…
“È un testo di filosofia della religione e di filosofia politica, un complesso di ricerche condotte in un arco di tempo che va dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso sino ai primi anni del terzo millennio: la lunga stagione del mio insegnamento all’Università di Urbino.
Ma a tema è il rapporto tra la religione e la città dell’uomo. Rapporto che ha alimentato un dibattito molto intenso, spesso conflittuale, mai interamente pacificato. Basti pensare in questi giorni a ciò che è accaduto a proposito di temi eticamente sensibili come il suicidio assistito, il testamento biologico e – nella nostra città – l’accoglienza dei migranti.
Aggiungerei anche l’atteggiamento assunto da parte di alcuni nei confronti del popolo dei nomadi (sinti e rom) dimenticando il dovere dell’aiuto a chi meno ha ed è oggetto di pesanti discriminazioni. Non è retorica dire che la persona, ogni persona, ha una dignità infinità e dev’essere trattata come persona. Altrimenti si ricade nella barbarie e nella violenza”.

Qual è il filo conduttore della sua ricerca? A pensarci bene gli argomenti del suo libro   sono tanti ed è difficile ricondurli ad unità.
“Ho messo in evidenza una parabola per certi aspetti paradossale. All’inizio del Novecento presso pensatori e politici era diffusa la persuasione che la religione sarebbe diventata via via più marginale e residuale, sino alla sua scomparsa. La parola chiave era secolarizzazione. Al contrario, il secolo si è chiuso e il nuovo millennio si è aperto constatando che la religione, le religioni (siamo anche in Italia al centro di una grande pluralismo culturale e religioso) si confrontano con le istituzioni politiche, economiche, culturali, contestano la pretesa neutralità dello Stato e dell’economia sul piano dei valori e la netta separazione tra etica pubblica ed etica privata”.

Tutto questo, professore, cosa comporta?
“Che  si sente il bisogno, nella situazione di pluralismo, di ridefinire lo stesso concetto di laicità. In questo non siamo diversi dalla situazione di altri paesi europei come la Francia o la Germania. In dialogo con autori come Habermas, Rawls, Bökfenförde e altri ancora, cerco di mostrare che il modello francese di laicità non è proponibile, perché   considera le religioni solo come un pericolo per la convivenza e tenta di relegarlo nel privato. Lo stato liberale moderno, lo stato costituzionale nato dalla neutralizzazione delle confessioni religiose più intolleranti (pensiamo alle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa), si è affermato infine, come strumento di pacificazione riconoscendo il diritto dei cittadini di orientarsi secondo la propria coscienza. Ma i suoi presupposti ideali (libertà ed eguaglianza dei cittadini, rispetto reciproco, senso del bene comune…) non sono mai definitivamente dati. Anche oggi possono essere messi in discussione.
Le religioni possono (per quel che riguarda il cristianesimo deve) contribuire a rigenerare l’etica collettiva sulla spinta di motivazioni che hanno origine  nella propria fede”.

Con quale conseguenza?
“I cristiani per primi devono comprendere il moderno stato costituzionale non più come qualcosa di estraneo e di nemico della loro fede, ma come l’opportunità di allargare la libertà di tutti, libertà che è anche loro compito preservare e realizzare. Pertanto il rapporto di reciproca autonomia  tra Chiesa e stato va accompagnato da una collaborazione sul terreno della libera convivenza delle persone, quale che sia la loro appartenenza culturale”.

Ciò significa che nella sfera pubblica le religioni possono intervenire su temi e problemi che riguardano la collettività?
“Certamente sì. È una tesi portante di Jürgen Habermas secondo cui nelle società pluraliste  divise da conflitti di valore,che vanno politicamente regolamentati, la sfera pubblica diventa «cassa di risonanza», un luogo di dibattito a più voci, dove c’è spazio anche per le religioni, che offrono spesso «contributi articolati ai problemi rimossi della convivenza solidale». Spetterà poi agli organi rappresentativi (consigli comunali, regionali, parlamenti) portare a sintesi e dare forma legislativa a orientamenti nati dalla discussione aperta.
Nasce di qui la sfida perché si affermi una laicità accogliente e ospitale nella società postsecolare, andando oltre il modello francese che si è manifestato come ideologia di Stato, cercando di rigettare nel privato idee,  strutture e simboli religiosi. È dello stesso Habermas un’affermazione che mi ha molto colpito, perché detta da un filosofo che si dichiara non credente ed è tuttavia convinto che la religione, le religioni possano giocare un ruolo rilevante in quelle comunità degli uomini che puntano ad una «coesistenza illuminata»: «mi chiedo – osservava – se un’ipotetica mentalità laicista della gran massa dei cittadini non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile, quanto una deriva fondamentalista dei cittadini credenti»”.

A cura di Paolo Guiducci