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I Pirati dicono addio al loro comandante

Martedì a dargli l’ultimo saluto c’erano tutti. Soprattutto c’erano i suoi ragazzi. Quelli che nei suoi 45 anni di presidenza lo hanno conosciuto, stimato, magari anche detestato, ma sempre rispettato. Perché Cesare Zangheri, da tutti chiamato affettuosamente Rino, era capace di piombare nello spogliatoio dopo una sconfitta e far tremare i muri, ma anche pronto a dare un “cinque” ai giocatori con la sua manona dopo una vittoria. “Chi indossa questa maglia deve sempre dare tutto, non tollero altri comportamenti” ripeteva spesso. Perché per lui i Pirati erano una seconda famiglia. Qualcuno, martedì, quando lo hanno portato in via Monaco per l’ultimo saluto al Diamante che ha fatto risplendere ben ben 45 anni (un record di longevità mostruoso) si è lasciato scappare una battuta: “Il pres. se ne è andato prima per non vedere la fine ingloriosa della società per cui ha dato l’anima”.

L’inizio.

La sua grande storia d’amore per il batti e corri ebbe inizio nel 1970. Fu un vero e proprio colpo di fulmine. All’epoca la squadra di Rimini giocava al “Romeo Neri”, a due passi da casa sua e il 40enne Cesare Zangheri, incuriosito, andò a vedere una partita. Fu Giorgio Palareti a portarlo in società, fu altrettanto facile convincerlo a diventare presidente, parliamo del 1973.

Il Baseball Rimini passò in poco tempo dal puro e semplice volontariato a una società di stampo professionistico. In meno di due anni riuscì a costruire una squadra vincente che nel 1975 portò all’ombra dell’arco di Augusto il suo primo storico Scudetto al quale ne seguirono altri dodici, l’ultimo nel 2017. Oltre al Tricolore, Zangheri ha conquistato anche tre Coppe Campioni, questo grazie anche ad una serie infinita di campioni: da Mike Romano, a Lou Colabello e Eddy Orrizzi, da Paolo Ceccaroli a Beppe Carelli, per proseguire con Falcone, Waits, Gambuti, Evangelisti e tanti altri ancora. Titolare di un’azienda leader a livello internazionale nella lavorazione del legno (a Douala, in Camerun, ha uno stabilimento di produzione di semilavorati che dà lavoro a 200 dipendenti, quasi tutti indigeni), Zangheri costruì anche un nuovo stadio solo per il batti e corri e portò a Rimini i Mondiali con tanto di record di spettatori. “Entrai come dirigente, coinvolto da Giorgio Palareti – amava raccontare – e dopo due mesi mi ritrovai presidente. Ma non mi sono pentito nemmeno per un momento di aver accettato quell’incarico”.

Non è riuscito a coronare il sogno, prima di ritirarsi, di mettere in bacheca il quarto trofeo continentale. Amato dalla sua gente, criticato da chi lasciava il Baseball Rimini, non troppo tenero con collaboratori, allenatori, giocatori perché da tutti pretendeva il massimo, dalla sua sedia dietro casa base, inveiva alla sua maniera contro tutti, ma umano dalla testa ai piedi, pronto a commuoversi per uno scudetto o per la festa a sorpresa per i suoi 80 anni organizzata allo stadio dei Pirati con ex giocatori e tecnici in rigorosa maglietta arancione (nella foto).

Ha vissuto il baseball a 360 gradi, combattendo senza esclusione di colpi con altri grandi dirigenti della sua epoca.

“Quelle sì che erano riunioni…” come ripete spesso Alberto Antolini, uno dei suoi più fidati e fedeli collaboratori. Zangheri è stato consigliere federale per lungo tempo, presidente della Lega nel 1991, entrato nella Hall of Fame nel 2015. Dotato di grandissimo intuito, ha preso anche decisioni all’apparenza impopolari, come quando ha tenuto fermo per un anno Paolo Ceccaroli all’apice della sua carriera per poi richiamarlo due volte, l’ultima giusto un paio di anni fa, quando “Ciga” e i suoi ragazzi gli hanno regalato il 13° Scudetto. Proprio quella sera ha fatto capire a tutti che la malattia che lo aveva colpito lo stava piano piano spegnendo. Ma la gioia per quel Tricolore lo portò anche ad alzarsi dalla sedia a rotelle che negli ultimi tempi era diventata sua fedele compagna. Proprio per questo, lo scorso anno, aveva deciso di dire basta, passando la società a Simone Pillisio. Forse l’unico vero grande rammarico della sua vita.