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Perché i preti non sono tenuti al voto di povertà?

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Ho imparato, parlando con un sacerdote, che per i preti non è previsto il voto di povertà. Perché? Per me era una cosa scontata, ho sempre pensato che per loro fosse un dovere e che le eccezioni di cui a volte si sente dire fossero dovute a debolezze umane. Un conto sono i beni che una parrocchia può possedere, per usarli a fini pastorali, di culto, di carità; un conto sono le proprietà personali di un sacerdote che secondo me dovrebbero essere limitate all’essenziale per una vita dignitosa.
(Lettera firmata)

Risponde padre Athos Turchi, docente di filosofia alla Facoltà teologica dell’Italia centrale.

Prima di valutare l’opinione del lettore sui preti è bene chiarire la questione.
I preti sono di due tipi. I sacerdoti diocesani o secolari, che fanno capo al Vescovo e fanno parte del clero diocesano, vivono in genere in una parrocchia di cui sono i parroci. I sacerdoti religiosi che fanno capo a un ordine o a un istituto religioso (per esempio: domenicani, francescani, gesuiti, carmelitani), e rispondono a una regola e a un superiore della stessa istituzione religiosa, e vivono in un convento di cui fanno parte come una famiglia.
Il prete diocesano, nel momento in cui diventa sacerdote fa tre promesse (si noti: non voti): promessa di celibato; promessa di obbedienza al proprio Vescovo; e promessa di preghiera e santificazione.

Il religioso, al momento di entrare in convento, fa tre voti: di povertà, castità e obbedienza.
La promessa è un impegno personale a seguire quanto detto. Il voto è un impegno che obbliga a un determinato modo di vita. La distinzione è evidente nel caso della povertà. Per un religioso è una rinunzia reale alla proprietà, al punto che nel momento del voto rinuncia a ogni possesso presente e futuro, con testamento.

Il prete diocesano non fa nessuna promessa in merito e perciò permane proprietario di ciò che ha e che potrà avere. Il prete ha una limitazione nell’uso dei beni parrocchiali e diocesani che, ovviamente, non sono suoi e di cui deve rendere conto, ma lo stipendio che prende e le proprietà che potrebbe avere per esempio dalla sua famiglia sono beni suoi e li gestisce come meglio crede.
Mentre il voto di povertà rende tutti i sacerdoti religiosi nullatenenti e perciò tutti poveri allo stesso modo, tra i preti diocesani possono esserci quelli ricchi e quelli poveri, e questo da sempre. Mi pare che questo non sia un problema, perché il prete diocesano o secolare è un ministro che svolge il suo ufficio nella chiesa e ciò che lo caratterizza è proprio il compito della santificazione del popolo a lui affidato, e questo lo può fare sia da ricco che da povero.

Invece il religioso fa una scelta diversa, una scelta di vita, anzi il sacerdozio in un religioso non è richiesto, ma è un «plus, extra» che si aggiunge all’essere religiosi. Il religioso per prima cosa sceglie di offrire se stesso, la sua vita, la sua esistenza a Dio «sommamente amato» (Decr. Perfectae caritatis), e per fare ciò vive in comunità con altri frati e tramite i tre voti suddetti impegna la sua esistenza nella santificazione propria, insieme a suoi confratelli, secondo la regola dell’Ordine. Si pensi a San Francesco che non era un presbitero (prete), ma era un ottimo religioso, Santa Chiara era religiosa monaca, e non sacerdote. Perciò un religioso è tale perché fa i voti e non perché è sacerdote, poi può diventare anche sacerdote, ma questa è una scelta ulteriore.

Se invece il problema del lettore è di tipo «morale»,chiamo così l’efficacia dell’insegnamento, dell’esempio, del convincimento che ogni prete deve infondere nei fedeli a lui affidati, allora il lettore ha ragione: un prete «povero» è un testimone del vangelo e del Cristo, che impersona, migliore e più efficace di un prete «ricco». D’altra parte i fondatori di Ordini religiosi scelsero la povertà perché molto efficace nel mostrare l’autenticità della scelta fatta. Tutti farebbero volentieri i banchieri, perché c’è un guadagno, pochi fanno volentieri i raccoglitori di cartoni, perché non ci si vive. Tuttavia il lettore comprende che anche un prete ricco che usa le sue proprietà a beneficio dei bisognosi ed è accorto amministratore, al punto che molta popolazione ne partecipa con frutto, non mi pare che sia un cattivo testimone perché sa mettere i propri beni e le proprie capacità a servizio di chi ne ha bisogno. Nella storia della Chiesa vi sono esempi di un modo e dell’altro.

Personalmente ritengo che la povertà sia lo stato più efficace di ogni altro per la evangelizzazione, e aggiungerei anche che, oltre tale stato, un buon evangelizzatore dovrebbe fare la scelta o l’opzione per i poveri, che garantisce l’adesione alla povertà sia al prete ricco che a quello povero.
Per esemplificare. Gesù può essere visto da due angolazioni: ciò che ha fatto e come è vissuto. Che cosa ha fatto? Ha predicato la parola, ha fatto miracoli, ha viaggiato, ha fatto del bene. Come è vissuto? Povero, casto, obbediente al Padre, insieme con i suoi discepoli. Il prete imita Gesù in ciò che ha fatto. Il religioso imita Gesù in come è vissuto. Il prete può fare le stesse cose di Gesù anche da ricco; il religioso invece non può non essere povero, perché altrimenti non può imitare Gesù. Comunque un buon sacerdote che abbia le due caratteristiche sembra il testimone migliore.