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Oltre i campi rom, prove di dialogo

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Sono presenti in Italia da quasi sette secoli e le prime attestazioni riguardano proprio il tratto romagnolo della Via Emilia. Stiamo parlando dei rom, un’etnia la cui ricchezza storica è inversamente proporzionale alla capacità di integrazione nei comuni italiani. E ciò – darà fastidio ad alcuni – avviene per colpe di entrambe le parti. Un circolo vizioso in cui “tu non ti fidi di me, io non mi fido di te”. E via così fino alla recente vicenda che ha investito il Comune di Rimini e il progetto di smistamento degli inquilini del campo di Via Islanda in tre aree (dette “micro”) nei quartieri di Gaiofana e Grottarossa, oltre a quella in cui risiedono attualmente. Una spirale negativa basata sulla non conoscenza l’uno dell’altro: benzina perfetta per ogni girandola di pregiudizi.
“Sono cambiate le cose dai tempi in cui i nostri predecessori montavano le tende e si spostavano da una città all’altra”, spiega Latif Ahmetovic, 54enne di etnia rom giunto in Italia in seguito alla guerra balcanica degli anni 90, “Io ho cercato in tutti modi, riuscendoci, di far ottenere un diploma ai miei figli, mentre i miei genitori non avevano la possibilità di mandarmi a scuola. Ho puntato tutto su quello. La mia speranza è che possano continuare a studiare e a lavorare senza subire ulteriori discriminazioni”. La vicenda è sempre la solita. Presenti un curriculum con una faccia rom e un cognome rom, e il coro di risposte recita “Siamo al completo”, “Ti facciamo sapere se abbiamo bisogno” (a meno che non ci sia qualche persona fidata od organizzazione umanitaria a sponsorizzarti). “È giunto il tempo di chiedere la fiducia di tutti i riminesi, affinché ci aprano i loro portoni. Siamo fatti di carne e di sangue come tutti gli esseri umani del mondo e anche ai nostri figli deve essere data una possibilità di integrazione”. E sulla vicenda della raccolta firme alla Grottarossa contro l’arrivo degli ex-nomadi Latif dice, “Mi dispiace che si firmi contro un popolo, perché significa che non ci si conosce abbastanza”.
Il popolo rom affonda le radici in tempi antichi, come abbiamo appreso all’incontro ‘Conoscerci per capirci, capirci per vivere insieme’ organizzato dal Gruppo Famiglie Giovani della parrocchia La Resurrezione di Rimini. Si presume che la nascita sia avvenuta nell’India occidentale alla quale ha seguito una lenta migrazione verso occidente fino allo stanziamento nella maggior parte dei paesi europei, fra cui l’Italia. Nel nostro paese i rom si presume siano circa 140.000 (ovvero una percentuale molto bassa della popolazione totale), di cui la metà ha cittadinanza italiana e professa in particolare la religione cattolica. Si tratta di un gruppo demografico molto giovane dove più della metà degli individui ha meno di 18 anni. Con le ultime generazioni, il concetto di “nomadi” risulta essere improprio dato che oramai hanno smesso di spostarsi e alle roulotte hanno sostituito le ruote con basi di cemento. Per questo oggi più che mai risulta importante parlare di integrazione; abbiamo a che fare con persone che si sono affezionate ad una città e che desiderano vedervi crescere i propri figli. Non si possono di certo sottacere alcune difficoltà sulle quali si dovrà col tempo lavorare. Culturali soprattutto. Abitudini ed usanze lontane da quelle italiane native. Ci sono volontari di cooperative che hanno aiutato rom nell’inserimento lavorativo annoverando, in mezzo ai casi di successo, anche quelli di insuccesso. Permangono infatti soggetti ai quali risulta più difficile comprendere l’impegno professionale richiesto dal proprio datore di lavoro.
Ad ogni modo la strada è tracciata. Il confronto può dirsi oggi inevitabile, tanto coi rom quanto con tutte le etnie straniere considerato che, in questo mondo sempre più globalizzato e solcato da flussi migratori che hanno origine nella fame, il destino è quello dell’incontro. Spetta a tutti noi decidere se renderlo più o meno uno scontro.

Mirco Paganelli