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O dialogo o conflitto

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Tra i tanti cambiamenti portati dalla modernità, uno di particolare importanza è il rapporto tra le religioni, un’esperienza diretta e quotidiana in ogni parte del mondo.
Ciò vale soprattutto per il rapporto tra Cristianesimo e Islàm. Quale futuro ci attende? È possibile ipotizzare una convivenza dialogante e serena tra soggetti diversi?
Don Pierpaolo Conti, parroco di Villa Verucchio ed insegnante di Storia delle Religioni all’Istituto interdiocesano di Scienze religiose “A. Marvelli’ di Rimini, con il libro Cantate al Signore un canto nuovo. Cristiani e Musulmani: per un dialogo concreto nella società moderna ha tentato una più precisa comprensione degli elementi in campo, anche per esplorare vie nuove di incontro, di rispetto e di dialogo. Ne abbiamo parlato con l’Autore.

Un libro sul dialogo islamo-cristiano con un titolo che invita al canto ha lasciato sorpreso più di un lettore…
“Nello scrivere queste pagine mi sono prefissato di non illustrare l’Islàm (rimando ai tanti testi già editi e molto più scientifici); e neanche di raccontare le emergenze (attentati, guerre, violenze, ecc.) che chiamano in qualche modo in causa la religione di Maometto. Il filo rosso del libro è la domanda: Che cosa si può fare? Come è possibile prospettare un futuro diverso? Il titolo scelto mi ha sempre accompagnato durante le fasi di preparazione, perché come cristiani siamo invitati a sperare e a progettare qualcosa di nuovo, di bello, di cantato.
Tanti sono i protagonisti di questo canto che Dio stesso ci invita ad elevare. Non sono solo i musulmani a dover cambiare atteggiamento. Qualche osservatore è convinto che il 2017 sia l’anno della fine dell’Isis. Tramontato l’Isis, messo fine alle violenze, tutto tornerà come prima? In realtà è proprio quando termina l’emergenza che è importante riflettere quale sia l’origine di queste tensioni, di questa violenza, e come si possa progettare un futuro diverso”.

Insegna Storia delle religioni all’Istituto di Scienze Religiose “A. Marvelli” di Rimini ed è parroco a Villa Verucchio, in una zona ad alta presenza di immigrati, anche di fede musulmana. Quale delle due caratteristiche ha avuto più peso nel decidere la realizzazione del libro?
“Tutto è iniziato in occasione di un pellegrinaggio in Terra Santa, una decina di anni fa. In questo viaggio sono venuto a contatto con due esperienze difficili ed una affascinante.
A Nazareth, nel periodo in cui nunzio apostolico era mons. Pietro Sambi, la comunità islamica voleva costruire una grande moschea, così grande e così vicina da coprire la chiesa cristiana dell’Annunciazione. In quell’occasione l’Islàm si presentava con forza e determinazione. La seconda esperienza l’ho vissuta a San Giovanni d’Acri: qui incontrai un padre francescano che gestiva una scuola con migliaia di studenti, a stragrande maggioranza musulmana. Mi raccontava della sua lotta perché le ragazze musulmane più fanatiche volevano costringere le altre studentesse a portare il velo. Il religioso invece aveva concepito la scuola come uno spazio di libertà. Ma lasciava sul tavolo il testamento ogni qualvolta usciva di casa, conscio di ciò a cui poteva andare incontro.
A fronte di queste problematiche, quel pellegrinaggio mi rivelò anche la bellezza (la moschea di Omar, la moschea di Al Aksa), la spiritualità, la poesia di cui è capace l’Islàm. Questo contrasto ha segnato il cammino della mia ricerca e di questo volume”.

Spesso dell’Islàm si parla solo in corrispondenza di fatti di sangue, di violenza, di attentati, di stragi.
“Anche tanti cristiani rischiano di abbeverarsi a questa informazione molto parziale. E così dell’Islàm si ha solo paura, e la parola dialogo è difficilmente declinata. Ne parla il Papa, ne parlano i documenti ma se non diamo contenuto ai grandi valori, essi sono vuoti. Se al contrario, essi diventano passi, operazioni e movimenti pastorali, tutto riprende senso. E i cristiani che intessono rapporti con i musulmani sanno che questo dialogo non solo è possibile ma già realizzata”.

O dialogo o conflitto, è la fulminante sintesi che il Vescovo di Rimini traccia nella “Presentazione”. Il libro contiene diverse pagine di buone pratiche che chiamano in causa cristiani, musulmani e società civile.
“Anche nella prima parte, pur con un titolo diverso, ho presentato dieci buone pratiche possibili per ogni comunità cristiana, movimento o parrocchia. Dieci possibilità. Perché tutti possiamo fare qualcosa.
La seconda parte contiene un capitolo specifico relativo alla convivenza, alla vita sociale e pubblica. In questo campo i problemi sono più gravi, specie nell’Europa che oggi avverte i seguaci di Maometto solo come pericolo. Non possiamo chiedere ai musulmani ciò che è contro la loro spiritualità. Ma nelle loro radici è inscritta la possibilità di vivere una vita democratica, l’accettazione del diverso, la convivenza.
Ai musulmani è chiesto di chiudere con il Medioevo: tutto il mondo è entrato in un’epoca nuova, democratica. E il rifiuto totale e incondizionato dei metodi costrittivi e della violenza. Tutto ciò è possibile”.

Don Conti, tra le buone pratiche che lei elenca ce n’è una che riguarda un tema periodicamente ricorrente: la costruzione delle moschee.
“Queste costruzioni spesso vengono finanziate dall’estero e da Paesi fanatici, portatori di un Islàm radicale.
La moschea al contrario deve essere l’espressione dell’inserimento di una comunità nella società, in dialogo con le altre istituzioni e componenti religiose, che aiuti le diverse presenze musulmane sul territorio a dialogare tra loro. Non è pensabile prevedere trentacinque moschee su di uno stesso territorio perché esistono trentacinque gruppi diversi.
La moschea va inquadrata all’interno di un progetto di inserimento che chiede alla comunità musulmana un percorso di integrazione e alla società di accoglierli in questa prospettiva di dialogo e di inserimento”.

E i cristiani che ruolo giocano in questa partita?
“Un ruolo importante. Buona parte dell’Islàm ci accoglie come fratelli, ci riconoscono come aderenti alla religione del libro. Ambiguità e difficoltà sono disseminate in questo cammino ma oggettivamente c’è una frase del Corano (oltre ad altre sull’importanza della figura di Cristo) da tenere come bussola: Vedrai che quelli che ti sono più vicini tra quelli che incontrerai sul cammino sono i seguaci di Gesù”.

In molti guardano con attenzione all’Islàm europeo.
“L’Islàm europeo è fondamentale, decisivo, per la possibilità di incontrarsi rispettandosi, accogliendosi nella propria diversità. Può diventare un esempio per il mondo intero. Perché se l’Islàm europeo diventa capace di vivere la sua identità nella modernità, diventa apripista per l’Islàm del resto del mondo”.

Una religione monoteista segnata però da grande frammentazione.
“L’Islam non è unito, non è una massa uniforme pronta a scagliarsi contro i cristiani. Anzi, non esiste massa religiosa più frammentata dell’Islàm, specie nei paesi europei.
Questa religione è fortemente divisa al suo interno e per diversi motivi. E non è rimasta uguale a se stessa nel corso dei secoli, ma protagonista di una storia plurale, con periodi di grande apertura e tolleranza. L’Islàm può dunque attingere dalla sua storia per approdare a metodi differenti”.

Tanti, anche tra i cattolici, giudicano questa apertura al dialogo con l’Islàm un eccesso di buonismo.
“Non dobbiamo nasconderci i problemi e io credo di averli presentati nella loro gravità. Ma nel testo ho cercato di dare valore al suggerimento arrivato dal Concilio Vaticano II, in una frase ispiratrice: «questa santa assemblea chiede a tutti di abbandonare il passato con sue guerre e violenze per iniziare un rapporto nuovo». Auspica un atteggiamento differente rispetto al passato.
Il cattolicesimo nel percorso operato nel secolo scorso, e grazie a quella esperienza significativa che è il Concilio, ritiene di poter entrare nella modernità con un atteggiamento più evangelico. Il porgere l’altra guancia a chi percuote la sinistra chiesto da Gesù. Ciò non significa cedere al male. Ma credere fermamente alla comprensione fraterna, alla pace, a Dio che muove il cuore di tutti, allo Spirito operante nella storia”.

Quante incide la mancanza di un leader spirituale unico come lo è il Papa per i cattolici?
“La figura del papa è molto importante e diversi musulmani lo riconoscono apertamente. Di recente un importante rappresentante musulmano tunisino si rammaricava: «noi non abbiamo il Papa…».
Questa frammentazione può essere letta in due accezioni. Una negativa (il segno della frammentazione). L’altra positiva, il segno di una scommessa. L’Islàm, infatti, ha un aspetto democratico poco valorizzato nella sua storia, più nella sua origine che nel corso dei secoli. I primi quattro califfi non sono diventati tali per imposizione né per eredità ma col consenso popolare.
Oggi l’Islàm soffre la crisi di leadership: capita che iman e capi non vengano riconosciuti dal popolo. Questa mancanza ha giocato in senso negativo ed è emerso il fanatismo ma se l’Islàm spirituale vuole aprirsi ad un futuro di pace deve riprendere vitalità: sarà il popolo allora a invocare guide adeguate alla convivenza pacifica. In realtà, in diverse situazioni questo già accade”.

Alcuni passi di fratellanza, secondo un’espressione cara a Giovanni Paolo II, sono stati compiuti anche nella Diocesi di Rimini. La Marcia della Pace, in cui il Vescovo ha camminato assieme all’Imàm, il gruppo di giovani musulmani che si adopera per la pace insieme a cattolici. Ed ora l’Osservatorio sull’Islàm.
“Composto da una decina di persone rappresentanti di varie realtà (cultura, scuola, società civile, movimenti), si prefigge lo scopo di aiutare la comunità cristiana a cogliere il mondo islamico e nello stesso tempo a comprendere la posizione della Chiesa, suggerendo comportamenti attorno al dialogo, all’incontro, alla comprensione, alla convivenza”.

Soliman e Zaid, ragazzi musulmani praticanti, han prestato servizio come volontari al Meeting. Un’esperienza simile è possibile anche nelle nostre realtà?
“Di recente a Catania il Vescovo e l’Imàm insieme hanno organizzato una raccolta alimentare a favore delle popolazioni terremotate. A Torino, a Milano e in altre città esistono iniziative del genere. E in Italia si stanno moltiplicando queste esperienze inattese. Il futuro non è già scritto ma sarà quello che ciascuno di noi si impegnerà a costruire”.

Paolo Guiducci