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Nel rogo di Cartagine

Foto Simone Donati/Terraproject/Contrasto

osservatorio musicale

In prima ripresa moderna Didone abbandonata, opera del 1726 di Leonardo Vinci su libretto di Metastasio

Prima Didone abbandonataPISA, 26 marzo 2017 – È stato Virgilio, nel IV libro dell’Eneide, a rendere immortale l’infelice amore fra Didone ed Enea. Sulla scia del poeta latino – incurante della verità storica, dato che la sovrana di Cartagine e il principe troiano sono separati da circa tre secoli – Didone è così divenuta l’archetipo letterario della donna abbandonata. Sono numerosi i librettisti che hanno continuato a cantare la tormentata passione della regina cartaginese e, tra questi, il più celebre fu Metastasio: autore nel 1724 di un fortunatissimo testo, Didone abbandonata, messo in musica nell’arco di un secolo da un interminabile elenco di compositori. Due anni dopo, tra i primi operisti a cimentarsi con gli splendidi versi metastasiani fu il napoletano Leonardo Vinci, autore del ‘dramma per musica in tre atti’, rappresentato (con alcune modifiche apportate dallo stesso poeta) a Roma nella stagione di carnevale. Dopo una replica a Vienna, sempre nel 1726, l’opera non è stata mai più ripresa: risale allo scorso gennaio la prima esecuzione in epoca moderna a Firenze, frutto di una coproduzione con il Teatro Verdi di Pisa, dove è appena andata in scena con grande successo. Mirabile per l’equilibrio drammatico e la simmetrica architettura con cui sono distribuite arie e recitativi accompagnati fra i personaggi, il libretto si basa su un duplice triangolo amoroso: il primo vede al centro Didone, innamorata di Enea, ma concupita anche da Iarba, re dei Mori; il secondo è incentrato sulla sorella della protagonista, Selene, anch’essa invaghita di Enea e invano amata da Araspe. In perfetta simbiosi con il testo poetico, Vinci sfodera l’intera grammatica degli “affetti”, codificando l’uso delle arie bipartite, tutta rigorosamente con “da capo”.
A guidare l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino a ranghi ridotti, mostratasi perfettamente a suo agio con le sonorità tardobarocche, un ottimo specialista di musica antica come Carlo Ipata. Il direttore è riuscito a ottenere dagli strumentisti una notevole aderenza stilistica, sottolineando i continui cambiamenti di tempo e valorizzando – grazie a una certa ricchezza dinamica – anche l’incalzante andamento drammatico della musica di Vinci, basato sul sapiente dosaggio fra oasi liriche e arie di concitazione, se non di vero e proprio furore. Lo hanno assecondato sei interpreti, tutti dall’ottima dizione italiana. Nei panni della protagonista, Roberta Mameli: nonostante una certa fissità nel registro superiore, ha valorizzato una figura femminile delineata con notevole modernità dai versi di Metastasio, imprimendo un’apprezzabile varietà di accenti al personaggio, con risultati di particolare efficacia nella splendida aria Se vuoi ch’io mora, all’inizio del secondo atto, e nel suggestivo finale quando si lascia morire nel rogo di Cartagine. Accanto a lei Carlo Allemano si è trovato più a suo agio nella scrittura sostanzialmente da baritenore di Enea, incontrando invece qualche difficoltà a mantenere stabilità di suono nelle ascese in acuto. Il suo rivale, il re dei Mori Iarba, era interpretato dal controtenore Raffaele Pe, molto espressivo, che ha sfoggiato lunghi fiati, affrontando con sicurezza una scrittura irta di colorature (meno sonoro invece nei recitativi). Sicura e precisa, il soprano Gabriella Costa ha disegnato con grazia vocale il personaggio di Selene, sorella e anche rivale – seppure inconfessata – di Didone. Completavano il cast due giovanissime, appartenenti all’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino: il soprano Marta Pluda, interprete en travesti di un acerbo Araspe (confidente del re Iarba), molto precisa nelle colorature; e il mezzosoprano Giada Frasconi, lo sleale Osmida (ancora un ruolo en travesti), con qualche disomogeneità vocale, che ha affrontato però con sicurezza la propria aria.
Lo spettacolo elegante e astratto di Deda Cristina Colonna si avvaleva di una scena minimalista – la stessa nei tre atti – di Gabriele Vanzini, integrata da suggestive proiezioni e ombre (realizzate dalla compagnia Altretracce) e dai magnifici costumi di Monica Iacuzzo. La bontà dei risultati dipende anche dalle luci di Vincenzo Raponi, responsabili del bellissimo finale, mentre Didone si accomiata cantando Precipiti Cartago. Una conclusione emozionante che, di solito, è appannaggio di opere ben più recenti nel tempo.

Giulia  Vannoni