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L’impresario destrutturato

L'impresario in angustie - Ph-IreneTrancossi

Al 43° Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano l’opera comica di Cimarosa in una messinscena dai risvolti pirandelliani  

MONTEPULCIANO, 14 luglio 2018 – Si narra che Goethe, quando nel 1787 assistette (Roma, Teatro Capranica) a una rappresentazione dell’Impresario in angustie, ‘farsa in un atto’ composta l’anno precedente da Domenico Cimarosa, quasi si sentì male per le risate. L’episodio ha forse assunto contorni leggendari, ma è certo che lo scrittore apprezzò talmente quest’opera su libretto di Giuseppe Diodati da volerla rappresentare a Weimar, pur dopo averla sottoposta a qualche rimaneggiamento e, ovviamente, con il libretto tradotto in tedesco. Se però Goethe avesse assistito allo spettacolo andato ora in scena a Montepulciano ne avrebbe tratto, probabilmente, un’impressione assai diversa.

Lo spettacolo di Caterina Panti Liberovici disinnesca in modo premeditato ogni ingranaggio comico, rielaborando la drammaturgia e riscrivendo gran parte del testo: l’intento è di trasformare l’atto unico di Cimarosa in un’analisi sul ruolo del regista – oggi senza dubbio la figura più invadente negli allestimenti operistici – ricorrendo a una chiave di lettura pirandelliana dove però non c’è posto per l’ironia. Se l’idea di riflettere sui meccanismi teatrali può essere in linea con un certo spirito dell’epoca (nel settecento, sulla scia del Teatro alla moda di Benedetto Marcello, il tema era ben presente nel dibattito culturale) poi, però, se ne discosta per imboccare tutt’altra strada. Anziché concentrarsi sulla figura del protagonista – appunto, un Impresario – nello spettacolo viene introdotto ex novo il personaggio del regista: l’attore Cristian Maria Giammarini, raffigurato alla maniera di Strehler (con tanto di sciarpa, seppure rossa) che, dopo aver spiegato – una giustificazione, però, un po’ troppo assolutoria – come un testo non appartenga più all’autore ma solo a chi lo sta mettendo in scena, interviene spesso a inframmezzare l’azione. La conseguenza è che l’efficacissimo meccanismo di Cimarosa e Diodati perde di concisione, finendo per dilatarsi a dismisura: non solo perché si passa da uno a due atti, grazie all’inserimento di un arbitrario intervallo che interrompe malauguratamente il quintetto (forse il vertice musicale dell’intera opera), ma soprattutto perché viene a mancare il ritmo. La comicità, invece, vive di tempi ben precisi: il risultato è che l’ingranaggio a orologeria, concepito dagli autori per strappare risate, entra spesso in rotta di collisione con la musica.

Cimarosa aveva definito con estrema cura, grazie soprattutto ai raffinati disegni degli archi, le fisionomie psicologiche dei personaggi che qui vengono invece relegate quasi al rango di marionette – rese tutte uguali dagli abiti di Alessandra Garanzini, pur eleganti e suggestivi – manovrate dall’invadente regista-demiurgo. La presenza di un cast di giovanissimi, dalle voci acerbe e di scarsa esperienza teatrale, non ha poi giovato a un’opera che richiederebbe invece un collaudato mestiere. Questo vale soprattutto per il protagonista: nella scrittura da basso buffo dell’Impresario, Claudio Mugnaini non possedeva né sufficiente volume né voce tonda e timbrata. A lui tocca l’esilarante aria Vado e giro nei palchetti in cui spiega come organizzerà una claque per assicurare il successo alla canterina: un modo irresistibilmente comico per denunciare meccanismi che, pur con modalità diverse, ancor oggi vigono fra i loggionisti. Dioklea Hoxha, soprano appena ventiduenne, ha affrontato con apprezzabile sicurezza il personaggio della primadonna comica Fiordispina; corretta anche il mezzosoprano Silvia Alice Gianolla, la sua rivale Merlina, alle prese con un’aria molto impegnativa; mentre chiudeva il terzetto femminile Vittoria Licostini, interprete di Doralba. Nei panni di compositore e librettista si sono impegnati con lodevoli risultati il baritono Francesco Samuele Venuti, dotato anche di una buona presenza scenica e capacità istrioniche (deve spesso cantare in napoletano), e il tenore Claudio Zazzaro, per la sicurezza vocale. Infine, il basso Stefano Bernardini si è rivelato convincente attore nel piccolo ruolo di Strabinio, assai ampliato dalla regia.

Sul podio, Roland Böer è apparso assai incisivo nell’imprimere un andamento scorrevole all’Orchestra Poliziana, formata da giovani musicisti locali (mantenendosi fedele allo spirito di Hans Werner Henze, che del Cantiere e della sua grande utopia fu l’ideatore nel lontano 1976). I ragazzi hanno così affrontano l’impegnativa prova con disinvolta sicurezza e buoni risultati in termini di sonorità: del resto la dimostrazione di quanto sia risolutivo l’intervento del direttore si era già avuta nel concerto pomeridiano, quando Böer aveva guidato gli stessi orchestrali in Preludio e fuga per chitarra e archi, un brano dalle reminiscenze bachiane di Lorenzo Turchi Floris (in prima esecuzione italiana), dove la bravura del solista Alessio Nebiolo era incorniciata da una ricchezza di sfumature e una varietà dinamica degne di strumentisti di lungo corso.
Giulia Vannoni