Lavanderie di cosa nostra

    Lontana e isolata. Vediamo così la criminalità organizzata. Ci indigna ma non ci tocca, ne conosciamo l’esistenza ma non ci sentiamo coinvolti in prima persona. Affari del sud, pensa l’uomo della tranquilla strada settentrionale. Nella ricca Emilia Romagna, nella florida provincia di Rimini non si spara, le aziende prosperano, l’economia gira e nulla fa pensare che quello del racket o delle mafie in generale sia un problema che ci riguardi. E se non fosse così?
    In effetti non è così. Quello della criminalità organizzata è un fenomeno che da tempo ha lasciato i confini del sud Italia, allungando i suoi tentacoli verso il nord ricco e pieno di opportunità d’investimento che tradotto in concetti comprensibili alle menti criminali, vuol dire avere possibilità di riciclare denaro sporco, quello che arriva dal traffico della droga e da altri loschi affari. Le mafie moderne sono alla continua ricerca di lavanderie, di società sane e attività pulite per mimetizzarsi e continuare a riciclare denaro sporco, questa zona è per loro una Eldorado.“Quello di cui dobbiamo renderci conto – commenta Ennio Grassi, studioso ed esperto di criminalità organizzata e penetrazioni mafiose nel territorio riminese – è che la criminalità organizzata rappresenta una holding. È una società con delle articolazioni e come tale investe laddove esiste la possibilità di investire. Non parliamo di organizzazioni dalle forme arcaiche, bensì evolute e ben coordinate”.
    Investimenti quindi, investimenti dentro le attività commerciali ma anche tentativi di prendersi la gestione di attività commerciali esistenti. “Si chiama usura mafiosa – spiega Enzo Ciconte, autore di Mafia, camorra e ’ndrangheta in Emilia Romagna, edito da Panozzo Editore, e da poco in libreria con ’Ndrangheta, breve storia del fenomeno calabrese dall’800 a oggi, edito da Rubettino – e si differenzia dall’usura del cravattaro, perché non spreme all’osso la vittima solo per riavere indietro il denaro, ma cerca in ogni modo di gestire o impadronirsi dell’attività della persona sotto scacco”.
    Va verso questa direzione la storia di Michele Pezone, originario di Aversa (Caserta) che poche settimane fa si è visto sequestrare in Riviera beni immobiliari per 7 milioni di euro.
    L’operazione condotta dalla sezione Mobile del Nucleo della Polizia Tributaria della Finanza di Rimini, presente in città dallo scorso ottobre, e guidata dal Colonnello Gianfranco Lucignano, ha portato alla luce un traffico nel quale si intrecciano investimenti immobiliari e usura.
    “Pezone – ci dice il Colonnello Lucignano –era un imprenditore sano, almeno sino al 2003. In quest’anno, infatti, ha avuto un tracollo finanziario e si è rivolto a conoscenze del suo paese d’origine per avere in prestito del denaro. In seguito, non riuscendo a saldare il debito e messo alle strette si è prestato a diventare braccio operativo della camorra e cominciato a lavorare sul territorio. Era diventato un intermediario finanziario. Pur consapevolmente, Pezone nasce come vittima del sistema”.
    Ma come ha fatto l’indagine ad arrivare sino a Rimini?
    Sicuramente il fatto che si sia potuta fare un’indagine di questo tipo dipende dalla presenza di questo nucleo della Finanza costituito ad hoc per scandagliare e analizzare la situazione patrimoniale di personaggi “strani” o “pericolosi”. Sono otto le persone che compongono questa squadra speciale, tutte con esperienze nei territori “caldi”.
    Un elemento poi, che ha acceso una luce su Rimini è la grande quantità di persone che hanno scelto di scontare la misura alternativa dell’obbligo di dimora proprio in Riviera.
    “Questo non è per caso. Lo spostamento presuppone che qui ci siano delle relazioni da vivere, degli appigli. Queste persone non si spostano per sentito dire”.
    È vero che a Rimini la criminalità organizzata non si manifesta come al sud. E se esiste, quando esiste coinvolge solo i commercianti meridionali che operano al nord, chiediamo?
    “Non ho elementi per poter dire che al nord solo i meridionali pagano il pizzo. Ma la mia esperienza mi porta a pensare che il non pagare il pizzo non dipende dall’essere riminesi o meridionali, ma da chi c’è dietro. Se a chiedere il pizzo è uno sprovveduto è possibile che il commerciante denunci, ma se a bussare alla sua porta è un uomo che alle spalle ha tutto un sistema criminale, non c’è riminesità che tenga. Faccio fatica a pensare che non si abbia paura e che non si sia portati a pagare”

    Angela De Rubeis