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La scuola che verrà

Dalla scuola in casa alla scuola “diffusa” della comunità. È un passaggio anche culturale quello che può nascere dall’emergenza sanitaria vissuta dalla scuola in questi mesi di lockdown, secondo il direttore dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari. E può avvenire solo a partire dalla riscoperta della relazione educativa, il “genoma della scuola” (la cui mancanza è stata avvertita in questi mesi di didattica a distanza soprattutto nelle fasce d’età inferiori, ma è essenziale per tutti) e dalla sua rilevanza sociale. Non è “affare” solo della scuola, dei professori o degli studenti, ragiona Versari, che è anche uno degli esperti della task force nominata dal ministro Azzolina e guidata da Patrizio Bianchi, per la ripartenza di settembre.

“Se il Covid ci avesse insegnato la centralità della scuola per la crescita delle persone e della società sarebbe un grande guadagno”. Da dove si parte? Dagli spazi, spiega Versari, quelli che più preoccupano in vista della ripartenza con le nuove norme sul distanziamento: gli istituti attuali, evidentemente non saranno sufficienti. E allora il provveditore lancia un appello a tutte le agenzie educative per stipulare “patti di comunità”: per una scuola “diffusa”, un modo per riappropriarsi di un bene comune.

Professor Versari, com’è andato l’esperimento della didattica a distanza in Emilia- Romagna?

“La Dad è stato un e sperimento fatto di luci ed ombre, come tanti altri in questo periodo, ma credo più di luci. La maggioranza assoluta del corpo docenti, anche quella parte che non aveva competenze specifiche che diminuiscono allo scendere delle fasce d’età dei ragazzi, si è riorganizzata in 15 giorni per fare didattica a distanza. E questo è un segno importante di dinamismo della scuola che aveva come obiettivo quello di mantenere la relazione educativa. Certo, soprattutto nelle fasce d’età più basse è mancata la dinamica di relazione, fondamentale per tutti, e anche nella scuola, ma è stato il Covid-19 a troncarla non la Dad. Il nostro

Servizio Marconi (la struttura regionale nella quale lavorano 20 esperti di didattica sul digitale) ha fatto formazione a 20mila docenti. Abbiamo ottenuto grandi risultati in una situazione del tutto eccezionale. Non c’è dubbio che sia meglio la scuola in presenza. Ma non è stato un tempo perso, è stato un tempo diverso.

Cosa ha lasciato questo tempo? Cosa ha insegnato alla scuola l’emergenza sanitaria?

“Il punto è proprio l’elaborazione del vissuto. O meglio dei vissuti: un dirigente scolastico di Piacenza mi diceva che ogni giorno nel pieno del lockdown riceveva lettere dalle famiglie che la informavano che era morto un nonno, uno zio, un parente stretto: lì sarà certamente più difficile.

Cosa ci ha insegnato questo periodo? La speranza è che sia a livello individuale che sociale abbiamo capito cosa è essenziale: il bisogno di relazione che c’è nell’educazione. In molti, anche tra i ragazzi, hanno percepito il bisogno di fare scuola. Ripartiamo da lì, dalla consapevolezza della centralità per la crescita delle persone e della società della scuola, da quello che essenzialmente è: una comunità educativa. In futuro dovremo continuare a ‘spolverare’, a togliere la polvere da quest’idea che la scuola è un posto integrale di apprendimento, per tutti.

E questo non ha bisogno di investimenti economici, ma etici e umani: e non è un compito solo della scuola”.

Si era un po’ perso…

“Alla scuola in questi anni sono stati affidati tantissimi compiti: l’apprendimento, certo, ma anche l’essenziale educazione alla socialità; è diventata un presidio sanitario; le si chiede una sensibilità sui problemi sociali, di attivarsi sul disagio. Dobbiamo intenderci su cosa deve essere la scuola: una grande madre che risolve tutti i problemi? Io credo che soprattutto in questo contesto post-emergenza sanitaria sia essenziale ripartire dal concetto di scuola della comunità e dall’alleanza con il territorio”.

È uno dei concetti base del piano Bianchi per la ripartenza di settembre… “È un’idea condivisa, non nuova, nata con gli organi collegiali di 50 anni fa: un’autonomia scolastica non come indipendenza ma come opportunità di alleanza con il territorio che mette in gioco le sue competenze, il suo capitale sociale. Una scuola con il ponte levatoio abbassato”.

In Emilia-Romagna già si fa… “Sì, perché rispetto ad altri territori qui il capitale sociale è più alto. L’esempio lo abbiamo avuto con il terremoto del 2012: non ha fatto lo Stato da solo, siamo ripartiti insieme, con il privato sociale, il terzo settore etc… Un esempio da replicare”.

Quali alleati per queste alleanze? Anche la Chiesa?

“Certo, perché no? Con la Ceer (Conferenza Episcopale Emilia-Romagnola, ndr) abbiamo stipulato un importante accordo per l’alternanza scuola-lavoro.

Ma anche la cooperazione, il terzo settore…”.

Cosa la preoccupa di più per la riapertura di settembre?

“Gli spazi. Anche in questo le alleanze possono fare la differenza: servono spazi di comunità per assicurare il distanziamento sociale e tornare a fare scuola. Non devono essere edifici scolastici ma oratori, cinema musei… Ogni realtà deve individuare le risposte nel suo territorio: in genere i più ricchi hanno più popolazione scolastica, e questo è d’aiuto”.

Infine, la crisi delle paritarie la preoccupa?

“Ho appena stanziato 45milioni per le paritarie. E le spiego perché. In Italia abbiamo 900 mila studenti che frequentano le scuole paritarie: se anche solo il 10 % chiudesse, dovremmo trovare posto a 100mila studenti.

In tempo di pandemia, con il distanziamento sociale e gli spazi che mancano, sarebbe un bel problema. Se poi aggiungiamo che queste scuole sono presenti soprattutto al Nord e che si rischia di chiudere non solo il 10% ma di più, proprio qui dove c’è stato il maggior indice di contagio…si capisce anche di più”.

Daniela Verlicchi