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La “cella” di campagna

Nel fare qualche ricerca per l’ultima “guida breve” pubblicata da il Ponte, quella sul santuario della Madonna di Montefiore, sono rimasto veramente sorpreso da come una “cella” di campagna, piccola e per tanto tempo isolata e nascosta, nel giro di poco più di un secolo abbia potuto trasformarsi e diventare un santuario celebre, capace di attirare fedeli da ogni parte della Diocesi. Alla radice di tale cambiamento ci sono un’antica immagine mariana, una lunga tradizione di devozione locale e popolare e un fatto miracoloso (del 1833); ma anche la fede e la tenacia di molti sacerdoti, dai parroci del vicino paese ai rettori, che si sono prodigati con sacrifici e fatiche costanti per trasformare l’originario piccolo edificio e per renderlo luogo accogliente di preghiera.

In origine
Come ben sappiamo in origine c’era solo la piccola cella di un eremita, un tal Bonora di Ondideo, che la donò ai terziari francescani nel 1409. Vi era dipinta una Madonna, forse già allora venerata dalla gente del posto. Questa immagine ora è l’unica “reliquia” superstite dell’antico eremo, dalla metà dell’Ottocento fagocitato in più riprese dal nuovo santuario sorto attorno ad essa.
Un problema aperto – e che la “guida breve” nella sua concisione non poteva affrontare – è quello della datazione di questa Madonna: è sicuramente anteriore al 1409, ma di quanto? L’eremita Bonora l’ha già trovata dipinta in una vecchia celletta campestre accanto alla quale ha costruito il suo eremo, o l’ha fatta dipingere lui?
Per una datazione delle immagini, in mancanza di documenti, in genere si fa ricorso agli elementi stilistici; ma nel nostro caso questi sono stati completamente nascosti da replicate ridipinture che si sono sovrapposte alla pittura originale, nascondendola completamente. Non ne hanno stravolto l’iconografia, che è quella della Madonna del latte, ma ne hanno mutato i caratteri originari, che sembrano riaffiorare appena nel volto della Vergine, particolarmente nel taglio degli occhi, decisamente trecentesco, così come di tipologia trecentesca sono le ampie aureole in rilievo e l’impostazione compositiva generale; per un confronto si tenga presente, per esempio, la bellissima Madonna affrescata nell’abside riminese di Sant’Agostino intorno al 1310. Non è un caso dunque che qualche vecchio studioso abbia avanzato una cauta attribuzione ad un pittore della scuola riminese del Trecento. Ma come sostenerla? I pittori riminesi di quel secolo non sembrano esser stati particolarmente affezionati all’iconografia della Madonna che allatta, e hanno preferito alludere al desiderio di Gesù di essere allattato raffigurandolo in piedi sulle ginocchia della Madre nel tentativo di slacciarle l’abito per trovare la fonte del suo nutrimento: evidente “consiglio” ai fedeli di cercare in Maria la fonte della Grazia.

Rinfrescando l’arte
Quella di “rinfrescare” con ridipinture le immagini, specialmente se miracolose, è stata un’usanza sempre presente un po’ ovunque: per conservarle al meglio e per arrestare il degrado dovuto dal tempo, ma anche per aggiornarle secondo i cambiamenti del gusto. La già ricordata Madonna di Sant’Agostino, sempre per esempio, nel Quattrocento era stata rivestita da un ricco abito damascato da principessa. Già nel Settecento l’immagine di Montefiore risultava completamente ridipinta. Nel secolo scorso i ritocchi furono replicati (forse per mano del pittore riminese Francesco Brici) e risultarono particolarmente invasivi; riguardarono i colori del mantello della Madonna, ma anche il suo volto, che ebbe “rosate guance” ben impiastricciate di cipria e una boccuccia a cuore come allora andava di moda; anche il Bambino allora fu tutto “ripassato”, mentre lo sfondo si incupì di nero per dare risalto alle figure.
Viene spontaneo un interrogativo: perché non liberare dalle banali vernici moderne l’immagine originale, quella che l’eremita Bonora venerava e che ha voluto lasciarci in eredità? Non si tratterebbe tanto di ricuperare una nuova opera d’arte quanto di riscoprire l’immagine genuina che sta all’origine e al centro di un santuario caro a tutti i fedeli, una testimonianza di fede antica certamente capace di commuovere anche oggi. È stato avanzato il sospetto che un qualunque mutamento dell’immagine potrebbe sminuirne la devozione; e che sotto alle vernici moderne non ci sia più niente di originale. Ma non si dovrebbe avere paura, perché la Madonna primitiva non è mai stata cancellata. Il segreto per il buon esito di una ricerca seria e di un buon restauro è sempre quello di affidarsi a operatori cauti e capaci, e oggi certamente non ne mancano, che procedano con prudente determinazione, come recentemente è accaduto a Serravalle, che ha potuto recuperare la bella immagine originaria di una sua Madonna molto venerata e per iconografia del tutto analoga alla nostra, e come la nostra (anzi ancor più della nostra) malamente ridipinta.

Pier Giorgio Pasini