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“L’ inizio di una festa senza fine”

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Don Giuseppe Maioli. 69 anni, era stato ordinato sacerdote per la nostra Chiesa riminese, proprio nel giorno del suo onomastico, nel 1971. Membro attivo di Comunione e Liberazione fin alle origini del movimento, non si sentiva sdoppiato tra diocesi e CL. Era amante della montagna e della pittura, della musica e del bel canto. Un esempio della sua acuta sensibilità artistica è stato il brano “Se il Signore non costruisce la città” composto in gioventù e ancora oggi cantato in tanti campi-scuola. Da due anni don Giuseppe ha dovuto fare i conti con una grave malattia, un tumore che non lasciava scampo. E lui l’ha vissuto in piena, consapevole attesa: come l’offertorio della Messa, come la consacrazione che sigilla una intera esistenza.

Di don Giuseppe quando ho detto prete, ho detto tutto. No, non era un clericale: era proprio un prete-prete. Lo era con tutto se stesso: mite, tenace, trasparente e innamorato, forte e tenerissimo. Aveva capito che per amare le persone, bisogna imparare a perdere. Per questo voleva bene a tutti, senza mai legare nessuno a sé. Ed era contento. Spesso diceva: “Non saprei immaginarmi diverso da quello che sono”. Che miracolo, un prete contento!

Domenica scorsa ho concelebrato la Messa con lui. Prima di cominciare siamo rimasti da soli per un minuto. Gli ho chiesto: “Lo sai, vero, che per te questa è l’ultima Messa? Come la vuoi celebrare?”. Mi ha risposto con un lampo negli occhi: “Come la prima”. Dopo il vangelo – era quello della triplice domanda di Gesù a Simone di Giovanni: ”Mi ami?” – quando gli ho spalmato le palme delle mani con l’olio degli infermi, mi sono sentito investito da ondate di profumo che venivano dal crisma della sua ordinazione. Alla fine ci ha lasciato il suo testamento: “Ogni volta che ho celebrato la Messa – era arrivato al suo 45.mo di ministero – mi sono sempre fermato sulle parole centrali: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. E calcando l’aggettivo “mio”, mi è sembrato volesse dire: “In questo momento – non perché io sia bravo, ma perché il Signore mi ha scelto e amato – io sono tutt’uno con lui. Ho qui tra le mie mani la sua vita che diventa la mia, e la mia che diventa la sua”. L’Eucaristia fa della vita del prete un corpo donato, che continua a perdere sangue…

In molti avevamo chiesto la grazia della sua guarigione, affidandola alla preghiera di don Giussani e del nostro don Benzi, ma lui rispondeva: “Non chiediamo al Signore di fare la nostra volontà. Chiediamogli la grazia di essere umili e disponibili a fare la sua”. Comunque, il miracolo c’è stato, eccome. Il miracolo di non aver vissuto la morte come una disgrazia, uno scacco matto, un brutto incidente di percorso, ma come un incontro, un appuntamento atteso e sorprendente, come l’inizio di una festa senza fine. Un giorno mi ha voluto confidare la sua preghiera. L’aveva imparata da una parrocchiana, tutta paralizzata: “Gesù, io sono tuo”. Ed era felice quando gli chiedevamo di farcela ripetere.

+ Francesco Lambiasi