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Il proclama di Rimini

Ariminum torna in edicola (a casa per gli abbonati de ilPonte) con un nuovo numero ricco di storia e cultura. Molti i temi trattati in questo secondo numero dell’anno: da un approfondimento dedicato al Teatro della città, capolavoro del Poletti, al centro di una serie di lavori proprio in questo momento; sino alla testimonianza del passaggio di Murat a Rimini (nel 1815) dal quale fece un proclama fondamentale per il futuro Risorgimento. Ed è proprio questo contributo (scritto da Andrea Montemaggi) che vogliamo anticipare in queste pagine.

«Gioacchino Murat affascinava. Affascinava le donne con la sua bellezza mediterranea, forse mediorientale: si raccontava infatti che fosse discendente di arabi stabilitisi in Francia. La sua capigliatura mora e riccioluta, gli incantevoli occhi azzurri gli avevano procurato relazioni importanti tra cui la stessa Giuseppina Beauharnais, ma di lui si era innamorata la sorella di Napoleone, Carolina, che ottenne il consenso per sposarlo.

Affascinava gli uomini: dotato di un coraggio senza pari, trascinava i suoi soldati in battaglia con una foga ed un furore irresistibile e si diceva che con venti uomini sembrava un reggimento. Celebre fu la sua carica ad Eylau, la più grande carica di cavalleria delle guerre napoleoniche e la più riuscita. Insieme al cognato vinse innumerevoli battaglie, tra cui Austerlitz, ricavandone onori e gloria e il reame di Napoli.

Affascinava gli intellettuali e gli ingegni migliori: molti videro nel suo regno l’occasione delle profonde riforme che occorrevano all’Italia meridionale. Abolì i privilegi feudali, introdusse il Codice Napoleonico, organizzò un sistema scolastico innovativo, promosse lavori pubblici, rinnovò l’ordinamento giuridico che rese molto più efficiente ed equo combattendo il privilegio. Benedetto Croce dirà che durante il suo regno “si visse allora uno di quei periodi fortunati in cui ciò che prima sembra aspro di difficoltà si fa piano ed agevole, l’impossibile e lontanissimo diventa possibile e presente”.
Affascinava il popolo: era continuamente oggetto di entusiasmi e manifestazioni di giubilo; il calore e l’applauso non mancavano mai, anche se, purtroppo, il consenso era effimero, un tributo sincero ma volubile.

Non affascinava Napoleone: un senso di diffidenza tormentava il loro rapporto. Le fortune di Murat dipendevano in gran parte da quelle del cognato e ciò creava in Gioacchino una costante inquietudine ed un senso di inferiorità psicologica. Il suo scopo perciò fu quello di creare uno stato interamente napoletano, privo dell’influenza politica francese: si appoggiò quindi sulle nuove classi come la media borghesia terriera, che aveva fatto fortuna con le vendite dei beni ecclesiastici e dei grandi latifondi, ed il ceto militare, protagonista in Europa delle guerre combattute con il re.
A poco a poco Murat allargò le sue ambizioni: il reame napoletano poteva diventare il nucleo di un futuro Regno d’Italia, un territorio finalmente riunito dopo quasi mille anni e, naturalmente, indipendente.

Napoleone era contrario:preferiva, a torto, un Italia divisa, che poteva essere controllata meglio; alla sua caduta però Murat si trovò nel più profondo dei dilemmi: seguire la gratitudine o il proprio sogno?
Confidando nell’appoggio inglese (Lord Bentick, plenipotenziario in Sicilia, consigliava un’Italia unita indipendente da Francia e Austria ma alleata all’Inghilterra) Murat tradì il cognato e scelse il sogno: all’indomani della sconfitta di Lipsia intavolò trattative con l’Austria e nel 1814 concluse un trattato con il quale veniva confermato il regno, ampliato con l’annessione delle Marche.
Si trattava tuttavia di un espediente di Metternich per tenere ancora divisa l’Italia: da una parte Eugenio, fedele all’imperatore, e dall’altra Murat. Ottenuto lo scopo, lo scaltro austriaco rimise in discussione il patto adducendo la scusa che le altre potenze erano contrarie; in particolare Talleyrand era deciso a restaurare sul trono di Napoli i Borboni.

Il principio di legittimità
Murat quindi, di fatto escluso dal Congresso di Vienna dove si parlava solo del “principio di legittimità”, organizzò l’esercito per difendersi fin dalle Marche, quando intervenne il fatto nuovo: Napoleone, fuggendo dall’isola d’Elba, era tornato in Francia raccogliendo una festosa accoglienza. Nuove promesse da parte di Austria e Inghilterra, ma questa volta Murat non si fidò e decise di tentare la sorte per realizzare il suo sogno. Entrato nelle Romagne, il 30 marzo 1815 il re giunse a Rimini, ospitato dai conti Battaglini. Qui lanciò un proclama ai soldati e uno agli Italiani: quest’ultimo ebbe una risonanza mondiale e costituì l’alfabeto per coloro che aspiravano ad una nuova nazione unita e indipendente, tra cui un Alessandro Manzoni tanto profondamente colpito da voler comporre una canzone.
Il proclama è un inno all’Italia, sicuramente il manifesto del partito italico, l’atto fondativo del Risorgimento: qualcuno ha sostenuto che fu scritto da un giurista che farà parlare di sé: Pellegrino Rossi, il futuro primo ministro di Pio IX.
“Italiani! L’ora è venuta che debbono compiersi gli alti vostri destini. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dall’Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo L’indipendenza d’Italia!… sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero! Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d’oppressioni e di stragi. Sia oggi vostra gloria di non avere più padroni. Ogni nazione deve contenersi nei limiti che le diè natura. Mari e monti inaccessibili, ecco i limiti vostri. Non aspirate mai ad oltrepassarli, ma respingetene lo straniero che li ha violati, se non si affretta di tornare ne’ suoi… Italiani! Riparo a tanti mali; stringetevi in salda unione, ed un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale, una Costituzione degna del secolo e di voi, garantiscano la vostra libertà e proprietà interna, tostochè il vostro coraggio avrà garantita la vostra indipendenza”.
Era la prima volta che la parola indipendenza suonava forte e chiara, che l’indipendenza dell’Italia diventava il sogno di una nazione nuova e riscattata dal declino degli ultimi secoli. Queste idee, che molti della generazione successiva avrebbero sentito come un imperativo categorico, purtroppo non sortirono effetto: pochi credettero, pochi accorsero; tanti pensavano, come Metternich, che l’Italia fosse solo un’espressione geografica. Qualche battaglia incerta poi, a Tolentino, una vittoria austriaca “psicologica”: sulla base di false voci di insurrezioni o sbarchi nemici, re Gioacchino decise di abbandonare la battaglia che ancora non era persa, perdendo così il regno. Era stata la vera prima guerra di indipendenza.

Il Regno di Napoli
Murat non affascinava i vili e i pavidi come Ferdinando di Borbone, despota reazionario interessato a cacciare e ad applicare la sua Lucia Migliaccio: tornato, non per merito suo, re di quel reame che fece riprecipitare nella restaurazione oscurantista. Gioacchino aveva deciso di tentare l’impresa di riprendersi il regno di Napoli con pochi compagni, meritandosi un commento ingeneroso da Napoleone: “Murat ha tentato di riconquistare con duecento uomini quel territorio che non era riuscito a tenere quando ne aveva a disposizione ottantamila”. L’illustre cognato però, rimeditando per l’ennesima volta i suoi errori, scrisse poi che se avesse accettato l’aiuto di Gioacchino, a Waterloo probabilmente sarebbe andata diversamente.
In realtà Murat, braccato e ricercato in patria, cercava “la bella morte”: l’impresa era folle e disperata, le plebi, che lo avevano idolatrato, addirittura lo malmenarono strappandogli i baffi prima dell’arresto; il re Ferdinando impose di istituire una commissione militare che concedesse al prigioniero non più di un quarto d’ora per i conforti religiosi prima della fucilazione. Gioacchino rifiutò di comparire davanti alla corte marziale e, tanto meno, volle difendersi. Con il solito coraggio affrontò il plotone di esecuzione: in piedi e senza benda, fissando i soldati dopo aver scritto ai familiari una tenera lettera che si concludeva: “ricevete il mio abbraccio e le mie lacrime. Abbiate sempre presente nella vostra memoria il vostro sfortunato padre”.
Era il 13 ottobre 1815 e Murat aveva 48 anni. Fu un uomo che seppe vincere, seppe regnare, seppe morire: restò nella memoria non solo della sua famiglia ma anche degli Italiani che avevano ascoltato per la prima volta la parola indipendenza.