Home Attualita “I social sono una porta, non case”

“I social sono una porta, non case”

“L’età della pietra è stata il momento in cui i sassolini sono diventati attrezzi. Il fuoco poi è stata una scoperta rivoluzionaria, che ha stravolto il modo di vivere. La tecnologia oggi sta facendo lo stesso. In realtà ha già iniziato a modificare il nostro mondo”.
Sono parole del professor Andrea Canevaro, pedagogista, intervenuto a What’s up? I giovani e la rivoluzione digitale,
la conferenza promossa dall’associazione Free Exit in occasione della Pasqua Universitaria 2018 con il contributo e il patrocinio dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e di UniRimini.
Che coscienza avete? Se non ci fossero i social, un giovane del 2018 come si comporterebbe davanti a cose che indignano? Come si attiverebbe? La privazione dei social aiuterebbe ad esprimersi meglio?
Sono questi gli interrogativi ai quali i giovani presenti al Campus chiedevano risposta.
“L’uomo in quanto essere pensante ha bisogno di informazioni, tuttavia in varietà e dose adeguata” prosegue Canevaro. Il troppo stroppia, e le parole non mettono più in moto nuovi orizzonti, ma aprono burroni lungo il cammino. “Si perde quella curiosità cortese tipica delle stagioni. Marzo è il mese della curiosità: la primavera si affaccia, vede com’è messo il mondo, ci pensa su e poi arriva in tutto il suo splendore”. La definisce una curiosità cortese, che rispetta i tempi, che rispetta l’inverno. Senza le stagioni, senza l’attesa del giusto tempo, la curiosità diventa prepotente: voglio sapere tutto subito. E pian piano sparisce, perché come faccio a esser curioso se già ho l’illusione di avere tutto a portata di mano?

Parole che illuminano
È necessario addomesticare le tecnologie perché il flusso delle parole diventi controllabile e così illuminante. “Da un po’ di tempo ho deciso di identificare ogni anno con una parola. Quella di quest’anno è l’operosità. Non mi riferisco a un’operosità autoreferenziale perché nessuno riesce a fare tutto al 100% da solo”. Il professor Canevaro, infatti, parla di operosità combinata, sia tra persone che tra persone e tecnologia. Ognuno ci mette il suo e così si può arrivare più lontano, più avanti. E se ci sono dei problemi, bisogna imparare a starci, a vivere quel tempo faticoso. C’è il giorno per coltivare e la notte che è invece periodo di maggese, in cui la mente riposa, si ferma. Stiamo perdendo il tempo dell’attesa, i momenti in cui ci fermiamo, i momenti in cui assaporiamo il vuoto. Ne abbiamo talmente paura che lo riempiamo con tutte le App possibili.
“Noi che siamo più vecchi e abbiamo vissuto la crescita esponenziale della tecnologia abbiamo il dovere di non lasciare soli i giovani a maneggiare questo fuoco. Ora più che mai dobbiamo aiutarli a capire come gestire tutto questo”.

Parole che ingannano
Guido Mocellin, editorialista di Avvenire e del Regno, intervenuto anche lui all’evento della Pasqua Universitaria, mette in ballo il tema della post-verità, fenomeno per cui “i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare la pubblica opinione degli appelli a emozioni e delle credenze personali” (definizione di Chiara Giaccardi su Avvenire). Le emozioni contano più dei fatti. Le emozioni valgono più della nostra opinione personale. Novità? Nessuna. Sappiamo già che le pubblicità, i trailer, le quarte di copertina cercano di suscitarci un’emozione piuttosto che dare informazioni tecniche. Non ci aspettiamo che lo facciano i giornali, i politici, le persone che pubblicano sui social. Si spiega così, almeno in parte, il fenomeno delle fake news, le bufale. Con le nuove tecnologie e soprattutto con la diffusione dei social la post-verità è diventata pane quotidiano. Ognuno può scrivere un post o su un blog e si sente un po’ giornalista; da dietro lo schermo siamo tutti esperti. La partita la vince la credibilità, non la verità.
“Una delle malattie del web è la disinformazione, con grande sconcerto di chi pensava alla rete come facilitatore per l’accesso alle informazioni”. Selezioniamo contenuti che confermano le opinioni dominanti, quelle che consideriamo credibili. Le opinioni discordanti si perdono nel web.
“Quando uno va a parlare in pubblico si assume una responsabilità – insiste Mocellin – e andare in rete è essere in pubblico, anche se virtualmente. Prima di queste tecnologie c’erano le radio, i giornali, i telegiornali in cui dei professionisti, i giornalisti, si occupavano di gestire le informazioni, di renderle fruibili per noi. Filtravano il sovraccarico. Ora tutti siamo potenzialmente comunicatori ed esposti a tutte le informazioni. Solo che dobbiamo imparare a gestirle, sia a livello personale che pubblico”.

Parole per il futuro
“Di solito sono gli adulti a insegnare ai più piccoli, mentre nell’ambito della tecnologia sono i bambini quelli che ne sanno di più. Come possono coesistere questi due movimenti educativi?” chiede uno studente. Il professor Canevaro risponde parlando di “noi”. “L’insegnamento reciproco è un movimento tipico dell’umanità. Il nonno insegna al nipotino a far legna, poi quando il bambino cresce sarà lui a raccoglierne la maggior parte. In entrambi i casi diranno che la legna l’hanno fatta insieme. È nell’aiutarsi che si attua la propria umanità. Pinocchio diventa un bambino vero dopo che ha salvato Geppetto”.
“La qualità batte la quantità – aggiunge il professor Canevaro – meglio usare poche parole ma che siano quelle giuste. Nella comunicazione in diretta, faccia a faccia, entrambi gli interlocutori fanno uno sforzo e stringono un patto di fiducia reciproca: io ti parlo e io ti ascolto”. Questa modalità che dà importanza al poco, al noi va portata sui social.
Anche il Vescovo Lambiasi, alla Messa che ha seguito l’incontro, interviene sul rapporto che si dovrebbe avere con i social. “La tecnologia è frutto dell’ingegno umano e quindi in qualche misura fatta a immagine e somiglianza di Dio, poiché l’abbiamo creata noi che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. È una possibilità, ma non deve sostituire il mondo reale. I social sono una porta, non case”. E questo dobbiamo ricordarcelo quando abbiamo un telefono in mano o stiamo davanti a un computer: siamo su una soglia, ma non andiamo da nessuna parte.

Lucia Zoffoli