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I giovani cercano un cuore prima di una luce

Il tono è pacato, ma allo stesso tempo sicuro e coinvolgente. Don Michele Falabretti, quasi due metri, sacerdote della diocesi di Bergamo e attualmente responsabile del Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile, è uno dei relatori alla settimana di fraternità presbiterale che una sessantina di sacerdoti riminesi hanno condiviso col Vescovo presso i Salesiani a Loreto dal 20 al 24 novembre. Tema: <+cors>i giovani e il vangelo. Uno sguardo al futuro delle nostre comunità.

Si dice sempre “Non ci sono più i giovani di una volta… chissà come andrà a finire il mondo, se le cose vanno avanti così…”.
“In verità ci sono delle tavolette babilonesi e papiri dell’antico Egitto che riportano espressioni del genere. Da sempre i giovani sono stati visti come un problema. In questo il nostro tempo non differisce molto dagli altri tempi, anche se ci sono, ovviamente, delle caratteristiche peculiari della nostra epoca. I giovani oggi sembrano non protestare se qualcosa non è gradito, semplicemente se ne vanno e abbandonano l’ambiente che non corrisponde ai propri bisogni”.

Che Chiesa vogliamo costruire con i giovani?
“È evidente che non possiamo più fare una pastorale di conservazione ma siamo chiamati a una pastorale di ‘uscita’, che va verso gli altri e non preoccupata di conservare le proprie strutture. La cura degli altri ci chiede di considerare il giovane nella sua totalità. Intendo dire che non possiamo salutare il giovane nel giorno della Cresima e dargli appuntamento alla Gmg. Dobbiamo aprire la sfida dell’adolescenza che va verso la giovinezza, dobbiamo riempire i vuoti che abbiamo lasciato”.

In questa sfida la Chiesa italiana lamenta un ritardo?
“Ci siamo fidati un po’ troppo dei grandi eventi come la Gmg. Abbiamo creduto che questi potessero aiutarci a costruire dei cammini pastorali. In realtà il nostro faro devono essere le persone con le loro età, esistenze e condizioni. Dobbiamo guardare alle persone e prendercene cura camminando con loro”.

È indubbio che i giovani, siano oggi una periferia esistenziale cui guardare con estrema sollecitudine …
“Certo, il Papa ce lo indica. Sono convinto che non esista povertà più grande che dover crescere perché in questa crescita si rischia di restare soli. La speranza è cercare di non lasciare nessun giovane diventare grande da solo”.

Ma loro sembrano refrattari ad ogni proposta…
“Mentre in passato si accettava che ci fosse qualcuno che insegnava e che ci fossero delle regole bene chiare, oggi non viene più accolto un manuale di istruzioni che dica che cosa fare, ma come avviene con gli smartphone si impara provando e chiedendo a chi sta vicino. Mentre noi sogniamo di trovare dei modi per istruire i giovani sulla fede, loro sono accessibili solamente se c’è una domanda che li interpella personalmente. L’arte dell’educatore è quella di suscitare domande”.

Da dove partire in quest’ottica?
“L’educatore deve partire dal fatto che i giovani non sono non credenti, ma sono credenti in modo nuovo: per i giovani la fede non coincide con la frequenza domenicale, ma la fede interpella piuttosto la quotidianità; il prete non è visto come l’unico mediatore che fa incontrare Dio, anche se viene ricercato e apprezzato come accompagnatore; la vita è schiacciata molto sul presente, conta il qui e ora”.

Cosa proporresti?
“I giovani hanno bisogno di relazioni vere, di coerenza e di ascolto.
Proprio per questo come Chiesa dovremmo poter offrire delle comunità e delle esperienze di fraternità dove le relazioni sono veramente autentiche. Il miglior investimento per il futuro della fede e per l’annuncio della fede ai giovani è curare delle relazioni fraterne”.

Concretamente?
“Le comunità sono chiamate ad offrire delle esperienze significative come i pellegrinaggi, la vita fraterna, l’oratorio, le esperienze di carità/missione accompagnate da educatori formati e preparati, capaci di far rileggere il vissuto ai giovani. Abbiamo bisogno di educatori che sappiano far emergere la dimensione spirituale della vita.

 a cura
di Giovanni Tonelli