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Islam: l’incontro vince la paura

Cristiani e musulmani in dialogo di vita. L’incontro promosso dalla diocesi di Rimini, si è svolto lunedì 16 aprile alle ore 21 presso il teatro della Colonnella. Alla presenza del Vescovo Francesco e di un pubblico numeroso, don Giampiero Alberti, responsabile del servizio per il dialogo interreligioso della diocesi di Milano, ha presentato la propria esperienza.

Don Giampiero, quando e come ha inizio il suo lavoro con la comunità musulmana?
“Nel 1990 il Cardinal Martini mi chiamò e mi disse: “Questa strana provvidenza che ci interpella, mi spinge a chiederti una cosa”. E mi mandò a Roma a studiare un po’ di Islam. Mi stava facendo capire che la convivenza con la cultura musulmana stava assumendo una prospettiva nuova; dentro questa prospettiva, oggi come allora, possiamo portare l’esperienza dell’amore, la bellezza della Buona Novella con la gioia dei nostri volti, senza voler convertire qualcuno”.

Quindi da quasi trent’anni è in dialogo con questa realtà.
“Negli anni con i musulmani di dialogo ne ho fatto pochissimo, però ho fatto tanti incontri. Questo è il passo più vero, più importante. Se il dialogo è difficile, l’incontro è sempre possibile”.

Trova che la tipologia dell’immigrazione dai paesi islamici sia cambiata in questi ultimi anni?
“Quando parliamo di immigrazione ci riferiamo a una realtà dinamica, non a un blocco di uomini; stanno cambiando anche loro, come cambiamo noi nella nostra fede, nella nostra esperienza. Fino a qualche anno fa venivano in Italia e in Europa per cercare lavoro; oggi hanno più a cuore il bagaglio culturale e religioso che non vogliono perdere e qui sta la provocazione più vera per noi. Inoltre, ultimamente, si vede che le comunità si riferiscono più esplicitamente ai singoli paesi di provenienza: senegalesi, tunisini, algerini, egiziani rappresentano diversi modi di pensare, di intendere l’Islam, con connotazioni più liberali o più radicali”.

Cosa risponde a chi obietta che le differenze sono troppe e troppo profonde?
“Bisogna cercare i valori comuni che ci uniscono, per avere meno paura gli uni dagli altri. Certo la realtà islamica vive momenti di chiusura che dipendono da diversi fattori; molto influenti sono le guide religiose, gli Imam, che cambiano spesso. Ho visto una iper islamizzazione quando, sotto alcune guide, le singole comunità (a Milano ne abbiamo 118, tutte registrate con i nomi dei responsabili) avevano paura di perdere o dimenticare la loro fede, ma ho visto anche una evoluzione verso una integrazione vera. E comunque la domanda è: “Li mandiamo a casa tutti oppure lavoriamo per vivere insieme?”. Va anche detto che incontrare l’Islam in Europa e in Italia non è come averci a che fare nei paesi arabi. Da noi si tratta di una comunità mutevole in se stessa, che tende a modificarsi facilmente. Però spesso, in questi anni, ho visto la voglia sincera di conoscere e di confrontarsi da uomo a uomo, da persona a persona; in questi casi le cose si sono evolute in meglio. Dove si è avuto paura e sospetto le paure hanno bloccato”.

Può fare qualche esempio?
“La presenza in Viale Jenner a Milano nei giorni più difficili, l’incontro con i salafiti che rappresentano la minoranza islamica più conservatrice. Non si può dire “Non mi interessa, ho tante altre cose da fare”. Avere il coraggio di una presenza semplice e concreta è la condizione fondamentale perché le cose procedano e le comunità musulmane si aprano, cambino. I primi anni mi dicevano chiaramente: “Se tu non ti converti vai all’inferno”. Adesso sono io che chiedo loro: “Mi mandi ancora all’inferno?” Il cambiamento non è avvenuto con una pacca sulla spalla, ma grazie all’incontro, a una relazione umana, personale fatta di piccoli gesti: “Accompagno io tuo figlio a scuola” o “Faccio compagnia a tua moglie in ospedale”. Queste sono esperienze che restano indelebili, non si dimenticano mai più e costruiscono una novità, creano una fiducia, perché la carità arriva dove nessuno si immagina. È anche capitato che abbia telefonato all’Imam dicendogli: “Mi hanno detto che sono stati esposti dei libri che parlano male del cristianesimo. Non va bene”. Oggi, con la stessa libertà e lo stesso entusiasmo di quando il cardinal Martini mi ha chiamato, mi sento di dirvi che abbiamo un’ opportunità buona: sta passando questo treno, attenti a non perderlo”.

A Milano come vi state muovendo?
“Il lavoro con la comunità islamica è trasversale e comune a ogni ambito di vita. Tutti gli uffici della curia, missionario, scuola, sanità sono interpellati e coinvolti; molto importante e delicato è l’aspetto dei sacramenti con il verificarsi di matrimoni misti. A Milano su 80.000 musulmani, 40.000 sono donne, fra cui giovani ragazze universitarie che si innamorano di coetanei italiani, ma nel Corano la Sura n.5 non permette il matrimonio a meno che il cristiano non si converta all’Islam. Un argomento delicatissimo e difficile, da considerare caso per caso. Eppure adagio adagio stiamo scoprendo come tanti valori siano comuni e su questi possiamo lavorare nel rispetto di alcune differenze che restano, come ho detto, inconciliabili. Su preghiera, digiuno, carità, educazione dei figli, si può portare avanti un lavoro insieme. Tanti ragazzi musulmani frequentano gli oratori, incontrano i parroci i quali vanno aiutati, accompagnati e anche formati. Lo scambio di auguri per le rispettive feste è diventato abituale o, in occasione delle benedizioni pasquali, sono state preparate lettere in otto diverse lingue per fare capire il perché della visita alle famiglie e per poter pregare insieme, con il sacerdote che recita il Padre nostro e la famiglia musulmana che ripete la prima Sura. Sono piccoli esempi capaci di creare uno stile nuovo. Inoltre il gruppo ecumenico è interpellato in prima persona: è bello andare insieme, come gruppo di cristiani di varie confessioni; molto spesso ci chiedono quali sono i veri cristiani”.

Ha parlato di formazione per i sacerdoti.
“Sì, certo. Formazione per i preti, ma anche per tutti gli operatori pastorali; una formazione che parta dalla Bibbia. È ancora il cardinal Martini che mi ha aiutato a coglierne diverse tracce di lettura. Il valore cristologico: “Ero forestiero e mi avete accolto”; il valore carismatico: “Chi è il mio prossimo? Fatti tu prossimo”; il valore escatologico: “Tutti siamo stranieri in questa terra in attesa dell’altra”.
Oltre alla Bibbia esistono i testimoni, che sono stati veri e propri pionieri da conoscere: da Charles de Foucauld ai monaci di Tibhirine, fino a Giovanni Paolo II che ha incontrato e parlato, come capo dei miscredenti, ai giovani musulmani di Casablanca nell’agosto del 1985 o quando, nel 1993, si è recato a Khartum, in Sudan, proprio mentre tanti cristiani morivano sotto l’islamizzazione forzata. Inoltre è sempre attuale e bellissimo da riprendere e studiare il documento Nostra Aetate nel quale si parla della bellezza delle altre religioni, ma nello stesso tempo della gioia dell’annuncio cristiano. Vi si legge, proprio nel primo paragrafo, che la Chiesa esamina “tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino”. Mi sento anche di dover sottolineare l’importanza della lettera che, nel 2007, trentotto personalità musulmane scrissero a Benedetto XVI dopo la lezione tenuta a Ratisbona; da lì è cominciato un fatto nuovo, cresciuto a piccoli passi: è emerso il coraggio di portare qualche critica al Corano e la posizione secondo la quale alcuni versetti vanno posti nel contesto di quando furono scritti. Infine ricordo che in Italia abbiamo il PISAI ovvero il Pontificio Istituto di Studi Arabi e di islamistica, vero punto di riferimento per tutti gli studi e i corsi di formazione”.

Rosanna Menghi