Home Storia e Storie Ecco chi si “mangiava” il porto

Ecco chi si “mangiava” il porto

Che il cattivo stato del porto di Rimini per secoli abbia ostacolato lo sviluppo dei commerci e abbia influito negativamente sull’intera economia cittadina e del contado, è noto a tutti. La difficoltà di attracco impedì a lungo l’entrata nel porto di cocche, caracche, galere, gripo, trabacoli, pieleghi, braceri, peote, batelli, tartane e polache. Frequentemente.
Tutti i testi di storia riportano due cause da imputare al dissesto: le piene alluvionali per i detriti del Marecchia e le mareggiate dai venti di Greco – Levante – Aquilone (Furiano, per i marinai).
Oggi però siamo sicuri che le piene fluviali e le correnti marine che accumulavano ingenti quantità di sabbie marine lungo il litorale, non furono le uniche cause del malfunzionamento del porto. Ce ne fu in realtà una terza. E su questa ci soffermeremo in questa seconda puntata dedicata alla storia del porto riminese.

Quando il faro era “sommerso”
Per capire il motivo più “nascosto” dei dissesti del porto canale bisogna pensare che l’attuale spiaggia di Rimini, nel 1700 non esisteva: la linea della battigia era pressappoco dopo l’attuale faro.
I moli furono continuamente prolungati a causa di un fenomeno di progressivo arretramento del mare, con conseguente avanzamento della spiaggia.
Lo storico Luigi Tonini annotò che tale fenomeno avveniva con una progressione di quasi un metro all’anno, anche se poi corresse questa sua affermazione prendendo a riferimento la torre: «Infatti se guardi al posto della Torre che anche oggi presta l’ufficio di fanale, eretta più di cento anni or sono (e non sarà stata posta in acqua) il mare non si è poi ritirato tanto da mettere in affanno che il prolungamento dei moli abbia ad allungare la linea in guisa da produrre in breve quegli effetti sinistri già messi innanzi».
Lo storico Tonini notava il fenomeno «da produrre in breve», guasti e danni ai moli, «effetti sinistri», interrogandosi su una causa che non riusciva a spiegare, ma che “sopiva” negli scritti di Boscovich, Bianchi e Calindri.

La terza causa
La terza causa completamente trascurata che oggi chiamiamo con il termine scientifico di Teredo navalis o teredini, era uno dei parassiti xilofagi che trova il suo ambiente naturale nelle acque salmastre portuali. Per secoli i pali in legno infissi sul greto del Marecchia a fabbricare le sponde e i moli del porto di Rimini (e di tutti i porti fabbricati con palificate) venivano rosicchiati della loro fibra legnosa e distrutti da parassiti acquatici, chiamati allora in gergo marinaro Brume delle navi o Bisse.
Questa riscoperta ci permette di capire facilmente perché il fortino Gozzadini, costruito in legno all’inizio del ’700, andò distrutto in poco tempo. Scriveva Boscovich in Del Porto di Rimini Memorie… (pag. 43 e 44) «…Le medesime palizzate dentro il canale devono aver patito col tempo anche infradiciandosi, massime fra le due acque alta e bassa, ove sono ora bagnate, ed ora asciutte; ma quelle, che stanno in mare, anno patito assai, e patiscono presentemente per li vermi, che le corrodono, i quali portati d’America cò vascelli, e propagati in Europa anno messo tanto in pericolo, e in allarme l’Olanda per le loro dighe, ed ora fanno tanta strage delle palizzate nell’Adriatico…».

Il misterioso affondamento
È noto il misterioso affondamento della flotta di Cristoforo Colombo che per il suo quarto viaggio per le Americhe noleggiò il Viczaina da Juhan de Orquiva per 42,000 maravedis al mese, «…it hed belonged to Juan de Orquiva, who chartered her for 42,000 maravedis a month…». Troverebbe così una facile spiegazione l’ipotesi del misterioso affondamento.
Continua Boscovich «…Essi vermi non si avanzano nell’acqua dolce, ma nell’acqua marina riducono i legni più duri in tre o quattro anni a pura spunga [spugna], e li fanno comparire tanti pezzi di favi di cera cavati da un alveare…».
Scriveva Calindri nella lettera di un riminese: «…Le predette palizzate sono infinitamente soggette alla corrosione dei vermi, che in quantità produce il nostro mare, tantoche in poco lasso di tempo rimangono a fior d’acqua, quasi tutte corrose, e tronche le palizzate sieno quanto essere si vogliono di legname grosso, forte e consistente; per la qual cosa si rende gravissimo il loro mantenimento, massimamente del molo che sta situato dalla parte di levante, che oltre gli accennati pregiudizj, ai quali più dell’altro è soggetto…».
Quando Bianchi, citando Boscovich, scriveva «… Veramente i pali nell’acqua salata in due o tre anni restano distrutti, e ridotti come spugne da què vermi chiamati dal Vallisnieri Brume, e qui volgarmente Biscie…», dimostrò di sapere del più distruttivo e veloce dei parassiti dei legni infissi in acqua salmastra. A tutt’oggi un problema senza effettiva soluzione.
La terza causa, le teredini, era sotto gli occhi di tutti e a Venezia la conoscono benissimo da secoli.

Loreto Giovannone
(Le foto di questa pagina sono pubblicate con l’autorizzazione del Ministero dei Beni Culturali)