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Don Luigi Tiberti e la spiritualità dell’incontro

Sono passati dieci anni dalla scomparsa di don Luigi Tiberti. Nel frattempo si sono succeduti numerosissimi eventi e il panorama sociale, culturale e politico, interno al nostro paese e quello dei paesi d’Europa e di altri continenti, è profondamente e rapidamente cambiato tanto da sembrare quasi luogo comune l’affermazione secondo cui oggi non si tratta di un‘epoca di passaggio ma di un vero passaggio d’epoca.

Eppure il ricordo di don Luigi resta forte in chi l’ha conosciuto e ha avuto la sorte di collaborare con lui e di conoscerlo da vicino. E sono numerosi coloro che appartengono a questa schiera di persone dal momento che sono stati numerosi gli ambienti che ha frequentato e lungo è stato il tempo del suo servizio pastorale alla diocesi e nel mondo del lavoro, cercando sempre amicizie e collaborazioni, suscitando vocazioni all’impegno sociale.

Una spiritualità dell’incontro

Don Luigi non ha mai dimenticato le umili origini, le difficoltà materiali in cui si dibattevano le famiglie contadine prima e durante la seconda guerra mondiale, gli anni della sua infanzia e della sua prima giovinezza.

Non ha mai dimenticato la grande folla di coloro che erano stati umiliati nel ventennio fascista, che avevano patito le conseguenze dei bombardamenti continui (in uno di questi persero la vita la madre e due sorelle di don Luigi) e dei rastrellamenti della Wermacht tedesca, che avevano sofferto la fame dopo la liberazione e che, con il duro lavoro, avevano avviato gli anni della ricostruzione. Fatti che hanno alimentato le ricerche storiche in sede locale, le quali però ci offrono solo un’eco fievole di quello che è veramente accaduto.

Da queste esperienze, una volta che decise di entrare in seminario e di divenire sacerdote, don Luigi aveva tratto conseguenze che incideranno sul suo modo di essere prete. I più poveri e il mondo del lavoro dovevano essere il campo della sua missione.

Una vocazione che si sarebbe ulteriormente precisata quando divenne assistente, alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, prima del Movimento rurali della Giac (Gioventù Italiana di Azione cattolica), poi del Movimento lavoratori della GIAC e infine della Gioventù operaia cristiana e dell’Associazione Cristiani e mondo del lavoro (CML). Cominciò anche ad insegnare religione nell’Istituto professionale “Leon Battista Alberti”. L’impegno tra i lavoratori lo portò ad incontrare la spiritualità dei piccoli fratelli di padre De Foucauld e a prendere parte agli incontri di un gruppi di sacerdoti che si ispiravano al suo messaggio.

I Piccoli fratelli di Padre de Foucauld si sforzavano di vivere una vita contemplativa condividendo però la condizione materiale e sociale degli operai più poveri: contemplativi perché il momento centrale della loro vita d’unione con Cristo era la preghiera eucaristica, senza lasciare gli impegni ordinari della vita di ogni giorno; a questi insegnamenti si ispirava anche il gruppo di sacerdoti secolari cui prendeva parte don Luigi che intendeva vivere con sempre maggiore coerenza le sue scelte e sapeva che tale spiritualità era assai vicina a quella che si cercava di vivere anche tra i preti che operavano nella Gioventù operaia cristiana, così come si era andata allora configurando secondo le indicazioni del suo fondatore, il belga mons. Joseph Cardjin.

Nel mondo del lavoro

Nel Movimento lavoratori della GIAC e successivamente nella GIOC don Luigi si era interessato intensamente a quella che era la proposta del metodo educativo in vista di quelli che erano gli obiettivi da raggiungere: creare comunità di giovani lavoratori, tra i giovani lavoratori e per i giovani lavoratori che fossero fedeli insieme alla Chiesa e al Movimento operaio. E in questo movimento era essenziale la pratica di un metodo che aiutasse a scoprire la specifica vocazione di ciascuno, a partire dalla concreta condizione di vita.

Di qui lo studio dei materiali che la GIOC internazionale aveva elaborato negli anni avvalendosi del contributo di teologi che sarebbero stati attivi al Concilio Vaticano II (da Chenu, a Congar, a Rahner, per fare qualche nome). La revisione di vita rimaneva al centro di ciascun gruppo: non si trattava – diceva don Luigi – di una seduta di autocritica, di un semplice esame di coscienza o di una legittimazione religiosa di iniziative politico-sindacali. Doveva invece caratterizzarsi per una permanente ricerca della volontà di Dio nella vita quotidiana, negli eventi che scandiscono la vita del mondo operaio e agire di conseguenza.

Mentre l’inchiesta campagna che coinvolgeva l’insieme dei gruppi su un tema che riguardava tutti i giovani lavoratori, permetteva di raccogliere una larga messe di dati che documentavano la condizione dei giovani lavoratori e indicavano come si potesse dare risposta alle esigenze emerse dalle tante informazioni estratte dai questionari, che venivano distribuiti capillarmente nelle fabbriche e negli istituti tecnico-professionali della diocesi.

Don Luigi insistette perché ci fosse un giovane lavoratore, un permanente, che per un tempo determinato, coordinasse tutte le attività del movimento. Si recò più volte in Belgio e in Germania, per osservare da vicino come funzionavano i gruppi e al ritorno recava con sé articoli, opuscoli che faceva tradurre e diffondeva per radicare ancor più una metodologia largamente sperimentata.

E soprattutto leggeva attentamente i documenti del Concilio Vaticano II e le encicliche. Citava spesso la Pacem in terris di Giovanni XXIII, la Popolorum progressio di Paolo VI e la Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II, che annotava e ne riprendeva i passi salienti ricopiandoli su un quaderno e ritornando frequentemente a meditare su di essi.

Comprendeva che per affrontare seriamente le questioni sociali era necessario pensare di più e pensare diversamente: per esplorare il nuovo che stava nascendo e le incessanti trasformazioni che la tecnologia introduceva nella vita delle persone e del mondo. Una lezione per tutti noi, anche oggi, soprattutto oggi.

Per farsi prossimo a tutti

Il carisma riconosciuto di don Luigi era la capacità di ascolto e il suo farsi prossimo a ciascuno, considerato come un unico, irripetibile. Era pronto ad aprirsi interamente all’incontro con l’altro, chiunque esso fosse, in qualunque appartenenza esso si riconoscesse. Il suo vivere era un essere-per- gli altri che trovava forza nella preghiera e nella contemplazione, nel fare davvero comunità con coloro che collaboravano con lui.

Ha scritto di lui un collega al “Leon Battista Alberti”, anticlericale convinto ma non per questo chiuso al dialogo: “Mi ha sempre colpito la gran fede di don Luigi e la sua grande fiducia nelle altre persone: cercava sempre il buono di ognuno… Nei consigli di classe prendeva sempre le difese degli ultimi, quelli che avevano più difficoltà… Talvolta si indignava quando scattavano meccanismi di egoismo dentro la classe o quando qualche insegnante esprimeva giudizi troppo severi… Era un uomo buono. per questo aveva la forza di indignarsi di fronte all’ingiustizia”.

Potremmo dire oggi, con le parole di papa Francesco, che don Luigi si sentiva membro di una “Chiesa in uscita” e testimoniava la misericordia di Dio nel mondo del lavoro e nella scuola. Perché “una Chiesa in uscita è una Chiesa con le porte aperte”.

Piergiorgio Grassi