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Così Zavoli celebrò Marvelli nel 50°della morte

Vivere nella storia. È il titolo della tavola rotonda cui partecipò Sergio Zavoli il 4 ottobre 1996 nel 50° della morte di Alberto Marvelli. Ecco l’intervento integrale tenuto in quella occasione: ci sembra il modo più bello per celebrare la memoria di due personaggi che hanno fatto grande la nostra città.


Non sono propriamente versato in problemi di antropologia culturale, non indulgo quasi mai agli psicologismi quando si tratta di affrontare problemi come quelli di questa sera e tuttavia capisco la seduzione di un’ipotesi come quella che ci viene prospettata. Come mai in questa regione, in senso storico, la più anticlericale d’Italia (così almeno vuole un vecchio indomabile pregiudizio), come mai in una regione come questa sono possibili le apparizioni di creature come Alberto Marvelli?

Ricorderò sempre quando il cardinale Antonelli, corse trafelato dal Papa per comunicargli: ”Santità abbiamo perso le Romagne”, e la risposta del Pontefice fu: “Ma quando mai le abbiamo avute?”: Questo episodio la dice lunga sui caratteri della nostra storia regionale. Tuttavia qui siamo di fronte ad un mistero che non ha nulla a che vedere con le origini umane di questa creatura.

LA SANTITÀ NELL’UMANO

Da quella sorta di omelia laica che abbiamo appena ascoltato e che ha preceduto questo mio intervento, ho tratto un motivo di forte commozione quando è stato detto che la santità va considerata nel vissuto delle comuni condizioni umane. Al punto da poter credere che tutti noi, ciascuno a suo modo e in qualche misura, può essere santo. Pensando alle esperienze che sono state richiamate, al tempo storico vissuto da Marvelli, a quella grande tragedia della guerra nella quale è confluita l’esperienza personale e collettiva di tutti noi, allora penso che in quel momento abbiamo vissuto sulla terra, sulla nostra terra, nei luoghi riparati, con le nostre famiglie. Siamo stati davvero la comunione dei santi perché eravamo la società del dolore.

Credo che non ci sia momento più salvifico e profetico del dolore nella vita di una persona, di una comunità e perfino di un popolo. Chi crede di essere esente da questo prezzo alla vita, a mio modesto avviso, è destinato ad attraversarla come un sonnambulo. Sono stato come aggredito in questa giornata dedicata a questa ipotesi straordinaria della beatificazione di Alberto Marvelli da un lancio d’agenzia.

IL SIGILLO DI DIO

Si è santi senza essere riconosciuti, si è santi senza entrare nel calendario, tant’è che dai calendari si esce un anno si e un’anno no, probabilmente perché si era troppo largheggiato nel riconoscere la santità. Per Marvelli credo che questo rischio non esista.

Marvelli è già in quel mondo dell’anima che in forza della testimonianza, resa al tempo stesso a Dio e alla storia, ha per l’appunto il sigillo insieme di Dio e della storia, di quella storia che ci è stata data affinché noi potessimo dire chi siamo e che cosa vogliamo e ciò che non vogliamo, per ripetere i vespri di Eugenio Montale.

Marvelli non è solo una presenza esemplare. Mi pare che Marvelli sia anche un segno di contraddizione e provocazione.

Qui, tutti noi in questa sala, siamo costretti a ripensare a qualcosa. Quelli che lo fischiavano e quelli che l’applaudivano. Faccio violenza al senso della discrezione, all’amicizia personale che porto a queste persone, ma non posso non rilevare che questa sera tra noi, per percorsi che non sta a me indagare, in quanto misteriosi perché non appartengono alla nostra logica, sono presenti uomini che appartennero a ideologie completamente diverse nel momento in cui esse si scontrarono in nome della storia, di quel progetto salvifico dentro la storia che fu elaborato, ahimè, con grande successo da quelle religioni laiche che sono state le ideologie.

NELLE MANI DI CRISTO

Voi ricorderete quando persino alcune frange della chiesa ritenevano che il comunismo fosse una parte di dovere non compiuta dei cristiani. E i fischi di allora, gli applausi di allora, si confondono stasera nella presenza di testimoni comunque, di una realtà condivisa in quella società del dolore a cui mi richiamavo poco fa.

Era l’8 dicembre dell’84, il giorno della Concezione dell’Immacolata, che è il più ardito – scusate se uso questo aggettivo un po’ laico – il più poetico, il più fondante dei misteri, quella della nascita di Gesù che veniva dal cielo. Quel giorno per Alberto Marvelli cominciava una storia che è venuta fin qui, in questa sala fino a stasera, ma che durerà il tempo incalcolabile e impercettibile perché infinito di Dio.

Quel giorno, Alberto, ricevuto i sacramenti, iniziava la sua vita cristiana.

Una vita che non ho conosciuto, anche perché Alberto mi precedeva di qualche anno. Lui era nato nel ’18, io nel ’23 e a quei tempi anche solo un mannello di anni costituivano un abisso fra le persone.

Poi il tempo ricuce tutto, rimette insieme tante cose. Infine mi pare di averlo perfino conosciuto a forza di sentirne parlare. Fellini stesso, in un’intervista resa alla professoressa Massani, confida di non avere colto l’occasione, per l’appunto, la bellezza di quello spirito.

Ecco, Alberto ci è passato accanto per tanti anni, quasi senza farsi notare. Mi riferisco ai tempi in cui si frequentava insieme quell’oratorio salesiano, da cui prendono le mosse tante cose della sua breve vita e che aveva il suo centro propulsore nella parrocchia di Maria Ausiliatrice in Piazza Tripoli, dove un prete, alto, bello, casto, don Rossi, ci teneva a bada la domenica e c’insegnava a capire che la vita non era fatta soltanto delle nostre estati profane, dei nostri desideri più o meno impuri, della nostra voglia di vivere, di esistere secondo la carne, ma che c’era una dimensione che andava scoperta, misteriosa, arcana e che tuttavia, costituiva la più grande delle nostre ricchezze. Ricordo che, al contrario di Marvelli che frequentava l’oratorio già con il puntiglio, la dedizione e persino le brame dell’Eucarestia, noi ragazzi al di fuori di questa grazia, andavamo a quella stipatissima funzione domenicale, nel pomeriggio, attratti per la verità non tanto da un impeto spirituale, quanto dal fatto che partecipare a quella funzione dava diritto a ricevere una “marchina”, la quale ci dava il diritto di assistere a un film gratuitamente dalla sala parrocchiale.

Senonché un pomeriggio, il mormorio che proveniva dai confessionali, il profumo stordente dell’incenso, l’odore dei ceri, la vista di quei volti che risalivano dalle mani congiunte come rimesse in pace dall’introduzione del Cristo, mi parve di provare una sorta d’invaghimento. Mi sembrò che la fede era in arrivo. In un attimo feci il conto di quello che mi sarebbe costato alla mia umanità il perdere le ragioni della mia laicità, del mio modo profano di vivere. E mi parve di dovermi misurare con un’idea di santità alla quale non mi sentivo preparato. Sentivo che non sarei riuscito a rinunciare alle mie debolezze, ai miei desideri, alla mia golosità, al mio corpo, ai miei peccati e quindi pensavo che la misura della santità non mi poteva assolutamente toccare.

UN INCONTRO MANCATO

Esageravo e sbagliavo, perché poi ho capito che a Dio basta molto meno per essere santi e per accoglierci comunque nella sua confidenza. Sta di fatto che preso da questa sorta di panico pregai Dio di non donarmi la fede e, siccome è testimonianza che ho già dato altrove, mi pare di non volere fare violenza a nessuno, se confesso di avere ringraziato in qualche modo Dio di non avermi ascoltato. Per Marvelli il percorso fu completamente diverso. Un giorno il commendator Floridi, mi disse: “Che peccato Sergio che lei non abbia conosciuto Alberto Marvelli. Io credo che fra voi sarebbe nata una grande amicizia’ Questo inserì, dentro di me, una sorta di curiosità per l’umanità di Marvelli, e fu da quel giorno che cominciai ad approfondire in qualche modo la conoscenza di questo personaggio.

Poi un’altra occasione mancata: un giorno in cui avrebbe dovuto venire al microfono di una radio che avevamo allestito con mezzi rudimentali. Avevamo sistemato alcuni altoparlanti per la città e con un vecchio microfono di radio Tripoli, in compagnia di Glauco Cosmi e Gino Paglierani, aspettammo Alberto Marvelli. Marvelli non venne e cadde la seconda e ultima possibilità di conoscerlo.

ALBERTO, COSÌ PUBBLICO, COSÌ SEGRETO

Eppure quella personalità giovane e già adulta, così mite, così pugnace, così esposta, ma anche così schiva, segreta ma anche così pubblica, ne faceva già una creatura molto rara. Si parlava di lui come di un giovane santo. Girava la voce della sua vocazione caritatevole: la brama della comunione, tutto ciò in una continua ricerca di con divisione. Puntava sulla conoscenza, che sta al principio dell’amore.

Era per il confronto, come prima possibilità di uscirne insieme dai problemi della vita: ”Noi verremo alla meta a due a due” disse il poeta Eluard e francamente, seppure con altre parole, lo dice anche il Vangelo. Tutto ciò rappresentava il sigillo della sua fraternità, ma anche il modo stesso di intendere la politica: uno strumento per conoscersi, capirsi e anche per distinguersi.

LA MORALITÀ LAICA DI MARVELLI

Qui è stata usata spesso una parola fondamentale per capire la moralità laica di Marveili: discernimento. Tutti abilitati ad essere diversi nel segno della tolleranza. Ci è stato letto anche un passaggio del diario di Alberto, anzi il testo conclusivo, in cui come un pensatore dell’epoca dei lumi, in un atteggiamento laicamente dubbioso, egli intravede qualcosa di vero anche nelle verità degli altri, il che ne fa un democratico a tutto tondo e certamente un tollerante. Perché tutti, se in buona fede, si è capaci di tendere al vero.

Ma ciascuno con la sua identità, con i suoi valori, ciascuno con i suoi linguaggi e i suoi metodi, ciascuno con i suoi strumenti e i suoi fini. Ecco la scelta politica come testimonianza, come laboratorio di ciò che unisce nel rispetto, ma anche nella distanza, di ciò che ci fa diversi. E questa è un’altra parola usata molto stasera, che si carica di grandi significati. I suoi comizi non erano mai geremiadi, invettive, ripulse, ma neppure mediazione, compromesso, imprecisione. Dicono che a incantare era la sua trasparenza. A incantare non nel senso astuto e traverso del plagio, ma dell’indurre alla sospensione intanto del pregiudizio, e poi alla ricerca finalmente libera del giudizio.

Uno degli amici prediletti, Masinelli, potrebbe portare prove a non finire a quell’attitudine, a provocare la sincerità. La sincerità è un sentimento laico, civile, lasciando da parte la confessione con la sua sacralità ad altre più impegnative verifiche.

II migliore riconoscimento del suo stare al gioco, lo davano proprio gli avversari. I quali già vedevano in Alberto Marvelli un leader non solo della rinascente democrazia, ma un protagonista della rinata volontà politica della nostra città.

UNA TRASCENDENZA VERSO IL BASSO

Questo mi colpiva, quel coltivare insieme una fede verticale, tutta protesa verso Dio, senza soste e senza svolte. E un’altra orizzontale, tutta volta alla comunità, fatta di tanti e controversi percorsi. Alberto in qualche modo, sentiva interpretava, quella trascendenza verso il basso, verso la santa materia che Teilhard de Chardin considerava non meno nobile dell’altra e non meno salvifica. Consapevole che qui ci giochiamo tutto, e per chi crede ci giochiamo anche il dopo. Il 21 settembre tornammo a Rimini nel frattempo diventata un catino di calcinacci, una città tutta bianca come un ossario. Le ruspe avevano provveduto a ridistribuire equamente su tutta la città le sue macerie. In alcuni tratti, Rimini, pareva alta un metro e mezzo e noi si camminava sui reperti, sembrava veramente d’inciampare nei ricordi.

Ciascuno cercava la strada di casa, s’ingegnava di scoprire, da un comignolo, da un tetto, dalla finestra, la possibile sopravvivenza di quel barlume di vita che era rimasta ancora a quella casa vuota, con i tetti divelti, con le stanze dove nel frattempo erano cresciute i fiori, le erbe. Fu in quella città che ci rimise insieme allo stesso modo devono rimettersi insieme le persone che hanno lo stesso destino, come i padri prendevano l’esempio dai figli. Dove tutto era rovesciato, con i contadini che erano venuti al mare e i marinai erano rimasti in collina a vedere cosa sarebbe nato da quello che avevano piantato durante lo sfollamento.

Ecco, in quella città stralunata, che aveva davanti tutta se stessa, tutto il suo possibile avvenire, ecco che Marvelli comincia la sua testimonianza civile e politica. In quella città, apparve, ricordo, il primo segno di quella normalità che è stata qui richiamata, a proposito di una possibile santità che ci coinvolge tutti quanti.

LA NORMALITÀ DELLA MORTE INDIVIDUALE

E ce ne rendemmo conto, quando sui muri, dopo quel massacro di case, ma soprattutto di corpi e perfino di spiriti, quando d’estate a lutto riapparvero le nostre prime storie. Ricordo il primo manifesto da morto. C’era scritto Zaini Migani, ostetrica, detta l’Imolese. Quando passava nelle nostre strade veniva chiamata: “Imolese, chi è nato?” e lei ci diceva se ci si era arricchiti di una nuova creatura o no.

Quel manifesto ci dice che la morte, dopo le sterminate morti degli eccidi, degli olocausti, dei bombardamenti, fino all’ultima, cioè il bagliore di Hiroshima, dopo i cinquanta milioni di croci piantate sulla terra da tutta quella grande follia, ricominciava a riapparire una per volta. I primi manifesti da morto che ci dicevano che si ricominciava a morire uno per volta. Ed era una paradossale e riappacificante normalità ritrovata. Fu una pace irta di problemi. Per Marvelli fu un momento cruciale, estremo.

Fu il momento di rifondare la dignità della persona dentro la politica secondo un’idea libera e responsabile dell’uomo. Con un’aggiunta o una distinzione: che l’uomo non appartiene solo alla storia e che la sua storia va vissuta interamente e profondamente in una natura che prende vita niente meno da Dio e che a quell’origine è destinata a ritornare.

UOMO DEL DISCERNIMENTO

Nel segno della promessa, da una parte, e della disponibilità e dell’offerta dall’altra, persuasi che Dio non è lassù per soddisfare i nostri desideri, ma per rispondere di ciò che ci ha dato per salvarci. Egli non sceglie per noi, ma ci lascia liberi anche delle nostre scelte. Lo dice bene il rabbino Heschel: “Dio deve poter sognare i sogni dell’uomo, e l’uomo deve poter sognare il grande sogno di Dio”. Marvelli non fu in politica un mistico o un visionario. Fu un uomo di virtù e di senno, di carità e di discernimento. Tutto messo al servizio della comunità, in vista del massimo di condivisione.

Aveva alle spalle le grandi storie di don Minzoni, don Mazzolari, presto sarebbe venuta quella di don Milani. Era nell’aria, sembrerà sproporzionato alla grandezza dei sacerdoti ricordati, ma era già nell’aria don Italo Sebastiani e persino don Benzi, che è il più fragoroso, il più sconcertante, il più controverso, ma anche il più disarmato, il più profetico forse dei nostri preti di oggi. Marvelli fu un’arcangelo antropomorfo. Era bello come gli angeli musicanti di Agostino di Duccio.

Ma quello che seduceva non erano le fattezze umane, ma quel potere quasi carismatico di sospendere le idee degli altri, in attesa di qualcosa e di prezioso che poteva venire da lui. Così bello e così casto e così sereno. Così reale e così profetico. Non fu un ripetitore del Vangelo, e tanto meno fu un esegeta del Vangelo. Egli fu la possibile, difficile e struggente personificazione della Parola.

Quanto è stato detto che è stata la incarnazione della santità, io l’ho intesa come la parola che si fa testimonianza, cioè carne e spirito, annuncio e storia, volontà e carisma, secondo un’attitudine e uno spirito appassionato. Ci si chiede spesso che cosa sarebbe stato di lui se la morte non l’avesse portato via quel giorno mentre si recava ad un comizio nel borgo di San Giuliano. La morte, direte voi, scioglie ogni dilemma.

Abitando al di là di noi è certo la realtà più contigua alla vita, ma è già quell’altra vita, in cui mettiamo quella nostra, con i talenti che abbiamo saputo far fruttare e che abbiamo speso. Non c’è mai stato testimone della vita segnata dall’impegno religioso e civile insieme nella nostra città, che abbia raggiunto come con Marvelli un segno di esemplarità così forte e durevole.

OGGI COME IERI

Io penso spesso ai giovani di oggi, quando penso a Marvelli. E a Marvelli che avevo quasi dimenticato, lo confesso, e al quale sono ritornato velocemente, concitatamente, golosamente, in questi ultimi giorni, e al Marvelli mi pare di poter assimilare quella gioventù di oggi che non si è lasciata disincantare. Come allora, anche oggi ci sono molti motivi per poter dire che questa vita politica non ci piace. Ma io credo che non ci sia mai tanto bisogno di politica come quando essa stessa sembra autorizzarci a voltarle le spalle.

Una cosa che mi ha molto colpito e che dico spesso e lo dico qui perché vedo tanti giovani, un giovane di 17 anni partigiano liberale, un po’ come una mosca bianca in questa regione. Ebbene fu sorpreso a distribuire materiale ovviamente di propaganda liberale tre o quattro giorni prima che finisse la guerra. E come scrivono i cronisti giudiziari

fu immediatamente associato alle carceri mandamentali di Parma. La sera prima di essere fucilato all’alba, scrisse una lettera ai genitori, dove diceva: “E non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avevate più voluto sapere”. Ecco Marvelli in qualche modo ci riconduce a questa consapevolezza di fare politica. Fare politica non significa darsi alle convenienze, alle militanze di comodo, alle scorciatoie, per fare più o meno possibili carriere. Significa mettere sullo stesso piano tutti i cittadini, dal primo all’ultimo.

DUE VITE UNITE N UN PROGETTO

Queste due vite, quella in cui è vissuto e quella in cui è entrato, stavano veramente insieme nella buona e nella cattiva sorte, come si recita per i matrimoni. E furono di fatto davvero sposate da Alberto, promettendosi l’un l’altra fedeltà, permeandosi nel segno della promessa e della risposta. L’una spiega l’altra, è impossibile dividirle, imbevandosi nel più misterioso degli incontri, dei viaggi e degli approdi. Che una grazia così gratis data, abbia prodotto tra noi, nella nostra città, questa apparizione e questa comparsa, e che noi volendo o no si sia rimasti in qualche modo segnati dalla traccia che lui lasciava con la sua testimonianza, a me pare straordinario. Così com’è straordinaria questa riunione laica che ci vede stasera tutti insieme nel ricordo di un giovane che era e sarà riconosciuto santo.

Certo in mezzo a queste due vite ha avuto tutto il tempo, non sta a me dire se e quanto vi è riuscito. Per quell’imitazione di Gesù alla quale nessuno di noi è escluso, ogni cristiano per il fatto solo di esserlo, va verso la sua croce. “Io voglio essere tutto di Gesù”, scrive Alberto nel suo diario.

UN ABBANDONO TOTALE

Sono ammirevoli, ti riempiono di rispetto e d’invidia queste creature così capaci di abbandoni totali, estremi, coerenti. Sarà perché io sono ancora immerso nelle mie debolezze umane. Ecco queste esemplarità, stanno sopra a me come un distico che mi ammonisce. Mi ammonisce a non lasciare cadere nulla che conduca allo sfregio in qualche modo della persona umana.

A non far niente che sia contrario all’amore, come diceva Tolstoj, cioè non arrendersi all’idea che un uomo possa essere meno di un uomo. A vivere di grazia e di realtà, a una mensa dove il pane sia pane e il vino sia vino, in cui si stia insieme a chi vive tutte le debolezze umane, da liberare e insieme da redimere. Come diceva Sant’Agostino, da due pericoli ci si deve insieme guardare: dalla disperazione senza scampo, e dalla speranza senza fondamento. Ora non c’è dubbio che Marvelli è un fondamento di quella speranza.

INTRAPRENDENTI NELLO SPIRITO

E questo lo diciamo in una città dove vanno evangelizzati non tanto coloro che non hanno o non sanno quanto i poteri e i saperi che tengono i primi nel bisogno e i secondi nell’ignoranza. In una città non soltanto votata alle sue logiche profane, legittime e necessarie per vivere e sopravvivere, questa città, anzi, va elogiata per la sua intraprendenza, per la sua voglia di esistere e di essere sempre nuova. E a questo proposito c’entra poco ma è pure un segno di ciò che sa fare una comunità se è vero, com’è vero, che la Cassa dei Risparmi di Rimini è entrata fra le mille banche del mondo degne di essere menzionate.

È difficile entrare nel mistero di una grazia così rara di una possibi le santità, ci resta la curiosità di questo mistero in noi laici. E qui lasciatemi ricordare Fellini. Quando di ritorno da un viaggio catastrofico a Chernobyl, fui investito da un tir militare russo e ne uscii con una gamba fracassata poi operata; ebbene, in quel momento, ancora alle prese con l’anestesia, raccontavo i miei sogni di Chernobyl a Federico con il quale ci sentivamo spesso, quasi tutte le mattine, alle sette e mezzo. Non per dirci cose straordinarie, per comunicarci le nostre piccole cose. Ma quella volta avevo una cosa grossa da raccontargli: la paura della morte. E lui mi rispose: “ma che strano, non sei curioso di vedere come andrà a finire?”.

IL MONDO SARÀ CIÒ CHE SIAMO

Alberto ci ha aiutato a capire che il destino dell’uomo è il frutto delle nostre azioni, che il mondo sarà ciò che noi facciamo oggi, che un uomo è un uomo per il suo avvenire. Figuriamoci se questo non vale per una comunità e perfino per un popolo. Per cui non sentiamo ci intanto già celesti per una grazia che viene decisa altrove, senza di noi, ma guadagniamocela. Secondo: non chiediamoci più o meno virtuosamente più o meno declamando quale sarà il destino dell’uomo, perché proprio Alberto Marvelli ci ha insegnato che l’uomo stesso è il destino.