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Così nacque il Ponte, di nome e di fatto

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Abbiamo cominciato un po’ alla garibaldina, nessuno era esperto di giornalismo. I primi tempi il grande problema era trovare materiale per chiudere il numero. Pian piano poi ha cominciato a crescere intorno al settimanale un giro di persone che hanno portato la loro simpatia, il loro tempo, la loro competenza. Presto il gruppo dei giovani collaboratori è cresciuto”.
Quel 25 dicembre 1976 don Piergiorgio Terenzi lo ricorda bene. Il Vescovo Biancheri gli aveva affidato la nascita del nuovo settimanale, il Ponte, che idealmente riprendeva il cammino dell’Ausa, sospeso, come settimanale diocesano, col fascismo e la guerra.

Piergiorgio, tu eri molto giovane, 34 anni, ma già con un buon curriculum…
“Quando nei primi anni ’70 sono tornato a Rimini da Roma, dove avevo conseguito la licenza di insegnamento di teologia dogmatica, sono stato nominato direttore del Centro Studi diocesano. In questo incarico mi avevano preceduto don Fausto Lanfranchi e don Aldo Amati e comportava la direzione della Rivista Diocesana. C’era poi la organizzazione delle Tre Giorni pastorali, l’impegno di dar vita ad una scuola di teologia e il far parte del Consiglio presbiterale. Erano gli anni in cui si cercava di mettere in pratica il Concilio”.

Come si giunse all’idea del settimanale?
“A tutti era evidente una carenza. I preti e più stretti collaboratori avevano strumenti di formazione e frequenti stimoli al cambiamento, ma la gente, il popolo, restava lontano, anche se c’era il desiderio di coinvolgere tutti in un cammino. Occorreva un canale comunicativo, più alla portata di tutti, più popolare e meno specialistico ed elitario della pur bella <+cors>Rivista Diocesana”.

Così dunque nacque l’idea…
“In Italia esistevano più di cento settimanali per quasi un milione di copie, uno strumento molto popolare e diffuso. Era l’idea più immediata e possibile. Coinvolgemmo don Franco Peradotto, direttore della Voce del popolo di Torino e Presidente della Fisc (Federazione Italiana Settimanali Cattolici)”.

Perché venne scelto come nome il Ponte?
“I significati erano almeno due. Il primo perché il Ponte è uno dei massimi simboli di Rimini e questo ne sottolineava la ‘località’; il secondo stava proprio nella sua vocazione di essere ponte, strumento di dialogo e confronto, all’interno della comunità cristiana, ma anche con la gente che non crede, che in qualche modo è lontana. Quello che oggi papa Francesco chiama «le periferie». Questo determinò alcune linee editoriali, sempre più precisate, negli anni, dalla riflessione nella Fisc: giornale della gente, giornale del territorio, voce della Chiesa e dei più deboli. In questo senso non c’è fatto che accada, che non ci interpelli come persone e come cristiani. Per questo su il Ponte, da sempre, si tratta di ogni argomento ed ogni tema merita rispetto e attenzione”.

Chi furono i primissimi collaboratori?
“Difficile ricordarli tutti. Faccio riferimento solo ai primi mesi. Un ruolo particolare lo ebbe suor Rosaria che fu la prima segretaria di redazione, una suora paolina, un monumento di pazienza, tenacia e capacità. E le Paoline ci accompagnarono per alcuni anni in un servizio qualificato. Si era formato un bel gruppo di giovani promesse guidate da Forello Paci (il primo redattore capo), fra le quali alcune hanno spiccato il volo, come Giorgio Tonelli, che poi divenne giornalista Rai. Poi, certamente, Alfredo De Cecio, che fu il primo a raccogliere pubblicità, e un certo numero di laici e fra questi come non ricordare Graziana Larghetti. Già alla fine del primo anno un aiuto notevole ce lo diede Amedeo Montemaggi, in uscita dal Carlino, che con noi e per noi fece la grande inchiesta «La Valmarecchia ritrovata», che divenne poi un libro, un monumento di notizie su quanta storia e arte conserva il nostro territorio”.

La prima Tipografia fu Ramberti.
“Giancarlo era un laico repubblicano, di formazione dunque anticlericale. Insomma il diavolo e l’acqua santa, si potrebbe dire. Invece è stato, con i suoi soci e collaboratori, da sempre, un grande amico de il Ponte, un giornale che hanno, da subito, sentito come loro e che hanno seguito sempre con simpatia e suggerimenti tecnici. Ogni numero che usciva era un po’ anche loro figlio. Ci hanno aiutato tantissimo a capire il mondo dell’editoria. Parlare con loro era come andare a scuola”.

Erano e sono stati anni di grandi cambiamenti, anche tecnici.
“È vero. Siamo passati in poco tempo da Gutenberg alla Rete. I primi numeri erano ancora scritti in linotipia, poi si è passati alla litografia. Oggi con i nuovi sistemi editoriali e di stampa siamo davvero in un altro mondo”.

Una delle accuse dei primi anni, e forse anche di oggi, è che il Ponte non avesse una linea chiara…
“Se per linea si intende una linea ideologica o partitica, senz’altro. La nostra linea era quella dell’attenzione all’uomo, ai fatti che accadono. Per noi comunione e dialettica non sono mai stati termini antitetici. La linea era quella di accogliere tutti e allo stesso tempo avere la possibilità di essere critici con tutti. Ci impegnavamo di volta in volta a dare giudizi con criteri che ci vengono dal Vangelo, rispettosi di tutti, anche perché avevamo davanti un mondo ecclesiale molto composto, con diverse tendenze e orientamenti. Non era il limbo di gente che non prende mai posizione, anzi questo ci ha permesso di essere più liberi e di prendere posizione senza tesi precostituite e persone che si debbano difendere per ufficio”.

La chiamavi “politica dei fatti”…
“Esattamente. Anche la politica dei fatti era ricca di presupposti ideali precisi cui rifarsi, che erano l’accettazione in campo sociale, nel 1976 ancora pionieristica, di un certo pluralismo nella Chiesa; fare la scelta di mettersi dalla parte dell’uomo; stimolare una competenza nei diversi settori, per non dare giudizi generici, tanto meno di parte”.

Una linea che emergeva dagli insegnamenti del vescovo Biancheri…
“E che aveva a supporto il magistero del Concilio e di papa Paolo VI, con cui siamo nati. Magistero confermato anche da Giovanni Paolo II che sottolineava continuamente la scelta di mettersi dalla parte dell’uomo, soprattutto laddove in qualche modo è calpestato. Con lui la difesa dei diritti dell’uomo, di ogni uomo e di ogni diritto è posta fra gli impegni prioritari della Chiesa”.

La gente immagina sempre che gli articoli passino prima alla censura, chiamiamola visione, dei vertici diocesani. È così?
“Il Vescovo ed il Vicario generale hanno sempre letto il giornale quando arrivava loro stampato. Ciò non significa che poi, non facessero i loro rilievi, di solito demandati al Vicario, se le nostre posizioni potevano non essere corrette rispetto al loro sentire, ma nessuno ha mai censurato in anticipo nulla”.

Immagino che fra i primi problemi ci fosse quello economico.
“Era un ostacolo non indifferente. La Diocesi era disponibile a far la sua parte, ma non ad assumersi tutto l’onere. I nostri primi angeli custodi furono gli abbonati, la pubblicità e le libere donazioni. Ben presto ci siamo avviati a diventare una azienda editoriale. Fu una intuizione già dei primi anni, che si rivelò felice, favorendo la crescita lenta, ma progressiva della realtà Ponte, che poi generò, negli anni di mons. De Nicolò, altri strumenti come Radio Icaro e Bottega Video, da cui è nata Icaro Tv e tutto il gruppo che oggi comprende Newsrimini”.

Un’ultima domanda. Un giudizio su il Ponte oggi.
“Lo firmerei ancora. Anzi lo trovo arricchito e bello, fedele alle coraggiose intuizioni che lo generarono”.
Giovanni Tonelli