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Conoscere Gaia

Foto Michele Purin

A  Bolzano  in  prima  assoluta  l’opera  vincitrice  dell’edizione  2018  di Oper.a 20.21  Fringe  dedicata  al  futuro  del  pianeta  Terra  

BOLZANO, 24 febbraio 2018 – Da quando nel 1979 lo scienziato ambientalista James Lovelock formulò l’Ipotesi Gaia, la Terra ha cominciato a essere chiamata sempre più spesso con questo nome. La denominazione, con le sue origini mitologiche (il riferimento è alla divinità greca Gea), allude a qualcosa di più complesso della mera conformazione geologica del nostro pianeta, per indicare – invece – quasi un organismo, risultato dell’incessante interazione con gli esseri viventi che lo abitano: una consapevolezza, radicata un tempo solo tra i militanti dell’ecologia, ma oggi diffusa anche fra artisti di vari ambiti. Non stupisce pertanto che Gaia, recentissimo lavoro musicale – nove quadri più un prologo e un epilogo – del trentasettenne compositore altoatesino Hannes Kerschbaumer, su un libretto in lingua tedesca che Gina Mattiello ha tratto da testi dello scrittore austriaco Raoul Schrott, abbia vinto l’edizione 2018 di Oper.a 20.21 Fringe (promossa dalla Fondazione Haydn di Bolzano e Trento), insieme a Curon di OHT, Office for a Human Theatre: due esempi di teatro musicale che registrano una forte attenzione verso le tematiche ambientaliste, o in qualche modo connesse, affrontate con l’indispensabile competenza scientifica.

Proposta in prima assoluta al Teatro Studio bolzanino, l’esecuzione di Gaia poteva contare sulla bacchetta del giovane e bravo Leonhard Garms, che ha ottenuto impeccabile precisione e pulizia esecutiva dagli strumentisti dell’Orchestra Haydn (con l’aggiunta di fisarmonica, flauto basso e paetzold), capaci d’integrare il loro suono all’elettronica senza far avvertire alcuna frattura.

Foto Michele Purin

In una desolata e buia cornice l’astronauta, dal nome simbolico Hypatia, unica sopravvissuta a non si sa quale catastrofe, si aggira fra ciò che rimane delle forme viventi terrestri: scoprirà così i resti carbonizzati – in realtà si tratta delle suggestive sculture di Aron Demetz – di forme umane, simili a quelle di Pompei ed Ercolano, mentre il ribollimento orchestrale sembra evocare quello vulcanico che caratterizzava l’atmosfera primordiale in cui ha preso forma la vita, ma che qui è solo spia del suo annientamento. Mentre la performer vocale – la stessa Mattiello che, insieme al compositore, è anche coautrice della regia – declama il testo, con grandissima attenzione al respiro musicale, viene affiancata da una di queste sculture che gradualmente si anima (il coreografo e danzatore Hygin Delimat): quasi fosse un gigantesco essere tentacolare invade il claustrofobico spazio scenico, rendendo la solitudine dell’astronauta ancor più inquietante. La ricognizione procede fino a constatare che la crosta terrestre è divenuta un mare di pietra, di cui Hypatia elenca diligentemente le forme minerali e la loro composizione chimica: eco di una musica che tende sempre più a cristallizzarsi in modo ossessivo.

Il buio viene rischiarato solo episodicamente dalle proiezioni di Federico Campana, anche regista del suono, e l’unica immagine colorata che illumina la scena – poco prima del finale – è una sfera arancione (reminiscenza di una Terra che ha preso origine dal Sole, fucina di tutti gli elementi della tavola periodica). Ma, in una sorta di eclissi artificiale, il disco solare si oscura lentamente, spegnendosi: presagio, forse, dell’inevitabile fine che dovrebbe sopraggiungere fra alcuni milioni di anni. E che oggi, probabilmente, è l’uomo ad accelerare.

Giulia Vannoni