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Concilio e Social: è sempre novità

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“Io ho indossato l’abito talare in prima media, quando sono entrato in Seminario, e l’ho tolto quando sono diventato prete”. Si presenta così don Dino Paesani, prete settantottenne, ordinato sacerdote nel 1964. Esattamente il contrario di ciò che avviene quando uno diventa prete. Che si sia tolto l’abito talare non vuol dire che abbia “buttato la veste alle ortiche”, ma ci ricorda il periodo particolare della sua formazione e della sua ordinazione: prima e durante il Concilio. Prima del Concilio, lo ricordiamo per quei giovani che non ne hanno vissuto l’esperienza, anche i più giovani seminaristi dovevano indossare la “sottana” nera; dopo la riforma del Concilio anche nell’abito il prete ha cambiato aspetto.
Dunque una formazione pre-conciliare e un ministero all’insegna del rinnovamento pastorale, l’esperienza vissuta da don Dino.

“Ho avuto la fortuna di vivere i miei primi anni di ministero sacerdotale nella comunità del Seminario, con altri preti, come educatore dei seminaristi. Una fortuna perché ho potuto vivere l’effervescenza di quegli anni di rinnovamento nel cuore pulsante della Diocesi. Prima di tutto mi sono sentito prete, in quegli anni che sento i più belli e i più importanti della mia vita. Ho imparato che nella vita del prete la vocazione e l’attività pastorale coincidono”.

Sei rimasto per molto tempo in Seminario?
“Otto anni. Poi il vescovo Biancheri, nel 1972, mi ha mandato cappellano a San Martino di Riccione, nella prospettiva di diventarne parroco. Ed infatti l’anno successivo sono stato nominato parroco”.

Come era la vita di parrocchia e di una parrocchia così grande?
“Ho subito condiviso il compito di parroco ed il lavoro pastorale con altri sacerdoti. Poi sono arrivati i seminaristi teologi, che stavano con noi nei week-end e durante le vacanze per fare esperienze pastorali significative. Poi c’era mia sorella che, con le sue costanti premure, ha fatto da mamma a tutti”.

Ma il lavoro era tanto, essendo una delle due parrocchie più grandi della Diocesi.
“Il lavoro non mi ha mai spaventato più di tanto. Prima di tutto perché, come ho detto, lo condividevo con altri sacerdoti; poi perché cresceva in me la consapevolezza che la Chiesa non mi appartiene: Signore, guarda la tua Chiesa, è tua da sempre. Ho sempre avvertito il peso dei miei limiti, ma non mi sono mai spaventato, consapevole che alla fine il risultato non poteva dipendere solo da me. Io ci mettevo del mio meglio, ma per far crescere doveva intervenire il Signore. In terzo luogo potevo fare affidamento sui laici: sollecitati, diventavano sempre più capaci di condividere il lavoro pastorale. Certamente il campo era vasto e la risposta parziale, ma restavo convinto che, nonostante certe sacche di superficialità, la presenza del prete e del messaggio cristiano lasciassero qualche segno”.

E dopo 27 anni a San Martino ti sei rifugiato a San Nicolò.
“Quando la crescita della parrocchia ha cominciato a mostrare il bisogno di rinnovamento, ho chiesto di essere trasferito. Stare troppo tempo nello stesso luogo e nello stesso lavoro si rischia di cadere nella routine. Per cambiare e rinnovarsi bisogna cambiare anche le persone. Così ho chiesto di poter andare in una parrocchia più piccola, anche per prepararmi alla mia vecchiaia. Solo che dopo appena tre anni la parrocchia di San Nicolò è diventata la parrocchia di tutto il Centro storico di Rimini. E così dal 2003 al 2014 mi sono trovato con don Maresi a correre per tutta la città”.

Dato che sei prete da 53 anni, non sei un po’ stanco?
“Confesso sinceramente che dopo tanti anni non mi sono ancora stancato di essere prete. Certo, quando nel 2014 sono stato sollevato dal compito di parroco ed è arrivato don Metalli, mi sono sentito rinfrancato, perché consapevole che invecchiando non avrei più rischiato di rovinare il lavoro fatto. Ero e sono contento però di continuare una collaborazione col nuovo parroco. Inoltre, un anno fa, il Vescovo mi ha chiesto di collaborare con don Fausto Lanfranchi nei processi di beatificazione dei nostri giovani: Carla Ronci, Sandra Sabattini … Un ambito di vita a contatto molto stretto con la santità della Chiesa”.

Adesso che sei un prete “in pensione” come ti senti?
“Lo dico con una battuta semplice: mi sento di essere occupato sul piano ecclesiale, senza essere preoccupato. È uno stato fra spirituale e psicologico; è un fare l’abitudine a non preoccuparsi. Quando ero parroco, tante volte mi trovavo a spendere più energie nel pensare e nel preoccuparmi per ciò che c’era da fare che per farlo realmente. Con la responsabilità diretta bisogna preoccuparsi prima, per non sciupare dopo. Adesso questa preoccupazione non l’ho più; seguo fiducioso le indicazione di don Vittorio. Sicuramente c’è ancora molto da fare anche per me. Quando si va in pensione e si rimane dove si era parroci, bisogna favorire al massimo le nuove iniziative. La parrocchia sta crescendo e io ne gioisco; do tutta la collaborazione di cui sono capace e di cui c’è bisogno”.

Eppure qualche spazio per te, per invecchiare in santa pace, dovrai pure ritagliartelo.
“È vero. Mai come in questi tempi mi sono dedicato alla lettura e allo studio: aggiornamento teologico e pastorale, ma anche mi diletto di opere di letteratura. Siccome poi condivido la vita quotidiana con preti di alto livello culturale, condivido anche i loro studi. Inoltre, dal momento che compito dell’ufficio per le cause di beatificazione è la diffusione di materiale conoscitivo, ho cominciato ad occuparmi dei nuovi strumenti della comunicazione: twitter, facebook, internet…”.

Ci vuole un certo coraggio ad inoltrarsi in un mondo così nuovo e mutevole come quello dei social-media.
“Più che coraggio, per me ci vuole pazienza: pazienza di imparare un nuovo linguaggio e umiltà nel farmi insegnare”.

Sei diventato prete col Concilio, con tutta la sua carica di novità e di speranza. Come vedi e come vivi la Chiesa oggi?
“Oggi la Chiesa ha davanti a sé orizzonti per i quali mi sento spiazzato: il tema dell’immigrazione che porta con sé il tema dell’integrazione razziale, culturale, religiosa… Temi di fronte ai quali mi sento come un pesce fuor d’acqua”.

Egidio Brigliadori