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Cesare deve morire, Taviani coraggiosi

Tutto il mondo è un palcoscenico, anche il carcere di massima sicurezza di Rebibbia, dove i detenuti mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare, con la guida del regista teatrale Fabio Cavalli. Per mesi le drammatiche storie personali dei carcerati hanno lasciato il posto alla grande tragedia del Bardo e Cosimo, Salvatore, Giovanni Antonio sono diventati Cassio, Bruto, Cesare, Marcantonio. Succede in Cesare deve morire, bella operazione dei fratelli Taviani che a 82 anni dimostrano coraggio da vendere, premiato a Berlino con l’Orso d’Oro (l’ultimo lo conquistò Marco Ferreri ventun’anni fa con La casa del sorriso).
Non “teatro-filmato” ma un lavoro prezioso sull’impegno dei detenuti (tra loro c’è pure Salvatore Striano, ex detenuto ora attore) nell’affrontare con vigore e sincerità le pagine shakespeariane, occasione di ritrovare la dignità perduta e di riassaporare un po’ di libertà, se non altro perché con le emozioni suscitate da Shakespeare le pareti della cella sembrano “allargarsi” e lo spazio diventa meno stretto. Al termine della pièce i galeotti-attori ritornano nelle celle, a ritrovare la quotidianità del carcere da cui sono idealmente “usciti” per alcuni mesi grazie al lavoro sul Cesare.
I Taviani, in barba alle esigenze di mercato e di marketing, utilizzano principalmente il bianco e nero (il colore affiora all’inizio e alla fine del film) per “stare più vicini” ai detenuti e per rendere il tutto più realistico e introspettivo.
Le parole di Shakespeare “esplodono” nelle voci e nei corpi dei bravi attori, che fanno propri i personaggi con il loro humus di provenienza, dialetto compreso, e in quel personaggio c’è un pezzo della propria storia che si mescola per un attimo all’antica tragedia di sete per il potere.

Cinecittà di Paolo Pagliarani