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Cenerentola, archetipo di crudeltà

Una scena della Cenerentola - foto di Bobo Antic

Al Teatro delle Muse di Ancona un allestimento del capolavoro rossiniano realizzato dalla coreografa Francesca Lattuada   

ANCONA, 12 ottobre 2018 – Una Cenerentola ricondotta alla sua dimensione archetipica: quella che, a metà seicento, si rintracciava nella favola di Giambattista Basile. Ma, di fatto, anche nella versione rivisitata da Perrault e dai fratelli Grimm la popolare fiaba è abbastanza lontana da quello che sarà il libretto di Jacopo Ferretti, che ne stempera i risvolti crudeli nell’ironia, in grado di tingersi di ferocia solo quando ridicolizza i personaggi di Don Magnifico e delle sorellastre: questi sì, archetipi di una mediocre antropologia italica. Rossini rincara poi la dose attraverso una musica che, con il suo inesorabile ingranaggio, sembra prendere le distanze dai personaggi mettendone in risalto soprattutto i difetti.

Il soprano Martiniana Antonie – Foto Bobo Antic

Lo spettacolo di Francesca Lattuada, andato in scena al Teatro delle Muse di Ancona, presenta la protagonista come una donna volitiva e autodeterminata: non remissiva, ma che tiene le redini del gioco. La coreografa italiana, assai nota in Francia, firma – oltre alla regia – anche le scene, mentre i bei costumi sono di Bruno Fatalot (strepitosi quelli delle due sorellastre, come due metà fra loro complementari, e spiritosissima la redingote settecentesca rosa confetto di Dandini travestito da principe). Nel palcoscenico spoglio solo pochissimi oggetti: è continuamente ostentato un coltello, brandito dalla protagonista, che sembra alludere a quella simbolica uccisione della figura del genitore già adombrata in Basile. Anche quando, per cantare il rondò finale, Angelina appare simile alla Madonna del Pilar, con il volto tinto di nero e una raggiera attorno al capo, ci si accorge che i raggi non sono altro che coltelli. La lunga esperienza di coreografa permette alla Lattuada di affidarsi soprattutto ai gesti, in grado di surrogare persino le didascalie: così, sebbene puntualmente ignorate (dal caffellatte ad Alidoro al vasellame rovesciato), appaiono del tutto chiarissime.

Giuseppe Finzi – alla guida dell’Orchestra Sinfonica Rossini – ha diretto con tempi e sonorità quasi da opera seria (peraltro, l’altra metà della vena creativa del compositore), senza indulgere sui ritmi comici. Durante la sinfonia un mimo, con indosso una maschera che riproduce il faccione del Cigno di Pesaro, si squarcia la pancia con un coltello e ne estrae quelli che sono i simboli fondamentali della Cenerentola: da una scintillante scarpetta all’asino da spiumare (allusione al sogno di Don Magnifico). Al tempo stesso, però, svela l’abisso di inquietudini che, già nel 1817, il venticinquenne Rossini celava dietro la superficie farsesca e la frenesia lavorativa. La comune visione d’intenti, oggi piuttosto rara, fra bacchetta e regia rafforza l’impatto dello spettacolo: pur con questa concezione fonico-ritmica quasi austera, il direttore riesce poi a virare verso un andamento più frenetico e, quando la situazione sta precipitando, si percepiscono tutti i risvolti surreali della musica.

Il lavoro registico ha dato i suoi frutti anche sugli interpreti: con una voce dalle calde ombreggiature mezzosopranili, la giovane Martiniana Antonie – lunghi capelli scuri e abito rosso fiammeggiante – è stata una solida protagonista, dal fraseggio morbido ed elegante (giunta appena un po’ provata al rondò finale). Accanto a lei il Ramiro del giovane tenore Pietro Adaini si è fatto apprezzare soprattutto per la facilità negli acuti, mentre un po’ estraneo alla vocalità rossiniana è apparso il pur corretto Clemente Antonio Daliotti, nell’impegnativo ruolo di Dandini, per una certa mancanza di rotondità e la tendenza a semplificare qualche coloratura. Pablo Ruiz ha impresso a Don Magnifico una dose di robusta, sanguigna comicità e Daniele Antonangeli – dall’aspetto ieratico, quasi sacerdotale – si è rivelato un apprezzabile Alidoro, riuscendo a venire a capo onorevolmente della sua difficilissima aria. Interpretavano le due sorellastre il soprano Gloria Paci e il mezzosoprano Adriana Di Paola: quest’ultima davvero un’ottima Tisbe, per colore e sostanza vocale.
Tutto il cast, comunque, è apparso ben compenetrato in questa lettura del ‘dramma giocoso’ per nulla consolatoria e che apre, anzi, una finestra d’inquietudine non solo sulla protagonista, ma sulla stratificazione di significati celata dietro l’apparente leggerezza del meccanismo musicale rossiniano.

Giulia Vannoni