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Bilancio di un’esistenza

Fin de Partie, Leigh Melrose e Frode Olsen - Ph Ruth Walz

Finale di partita di Samuel Beckett con la musica di György Kurtäg in prima esecuzione al Teatro alla Scala per la direzione di Markus Stenz

MILANO, 22 novembre 2018 – Per un compositore di novantadue anni mettere in musica Fin de partie di Beckett è una sfida profondamente diversa rispetto a chi è giovane di età: diventa l’occasione per il bilancio di un’esistenza e, soprattutto, della propria parabola artistica. Per realizzare la sua versione musicale di un testo – utilizzandone peraltro poco più della metà – fra i più emblematici del ventesimo secolo, e che dal 1957 è in grado d’interrogarci con una forza spiazzante sul significato ultimo della vita, György Kurtág ha impiegato sette anni. A lungo rinviato, l’incontro con l’opera ha dunque richiesto al compositore ungherese un notevole impegno nella scrittura, anche se Kurtág si era già avvicinato in più occasioni a composizioni vocali, come nei magnifici Kafka Fragmente per soprano e violino (indimenticabile l’esecuzione in forma scenica alla Sagra Malatestiana nel 2009). Finale di partita – anzi, come recita il titolo completo, Samuel Beckett: Fin de partie, scènes et monologues, opéra en un acte – è nata su commissione del Teatro alla Scala: messa in cartellone per più anni, ma puntualmente cancellata perché a Kurtág serviva altro tempo per portarla a termine, adesso è finalmente andata in scena in prima esecuzione, come ultimo titolo della stagione 2018.

La precisissima bacchetta del tedesco Markus Stenz ha saputo rendere giustizia alla bellezza di un’orchestrazione di leggerezza e trasparenza quasi cameristiche (in buca ci sono invece più di settanta strumentisti), speculare a una visione del testo di Beckett disincantata e disposta a cogliere gli aspetti malinconici e introspettivi più che quelli grotteschi. Subito s’imprime all’attenzione la stupefacente varietà timbrica, cesellata dal compositore grazie ad accurate scelte di organico: pochi i violini e predominio invece di viole e violoncelli, ma in compenso cinque i tipi di flauti e altri strumenti insoliti, come il cimbalon e la celesta fino al bajan (fisarmonica della tradizione musicale russa). Il direttore, sempre molto ben assecondato dagli orchestrali della Scala, ha poi sottolineato la capacità evocativa di una musica che non ha paura di confrontarsi con autori del passato, seppure prossimo: dai francesi Debussy, Ravel e Poulenc ai compositori slavi, passando naturalmente per Bartók. Il cortocircuito fra comunicazione e linguaggio (che, per colmo del paradosso, ne è il suo strumento fondamentale), alla base dell’operazione di Beckett, mantiene così la sua centralità nella musica di Kurtág, seppure disinnescato proprio in virtù della sua grande forza comunicativa.

Pierre Audi concepisce uno spettacolo di rigorosa ed elegante geometria, anche grazie ai bellissimi tagli di luce che crea Urs Schönebaum. La scena pressoché fissa è di Christof Hetzer, che firma pure i costumi: il centro è dominato da una casetta lignea, capace solo di minime rotazioni, e che lascia i personaggi relegati al suo esterno, in una suggestiva allusione metateatrale. Il regista fa inoltre un accuratissimo lavoro sui cantanti, trasformandoli in convincenti interpreti. Strizza poi l’occhio alla grande letteratura operistica, enfatizzando la grandezza tragica dei personaggi, a cominciare dal cieco protagonista, che brandisce un bastone come fosse una lancia, in un’immagine che evoca il Wotan wagneriano. Tutti e quattro hanno una menomazione fisica: Hamm, il basso-baritono Frode Olsen, paralitico è in carrozzina; il suo servitore Clov, il baritono Leigh Melrose, è claudicante; mentre i suoi genitori Nagg e Nell, il tenore Leonardo Cortellazzi e il mezzosoprano Hilary Summers, entrambi privi di gambe a seguito di un incidente in tandem, sono condannati a vivere in due bidoni della spazzatura. Kurtág modella le linee di canto sulla lingua parlata, con linee vocali sillabiche, sempre molto essenziali e forse proprio per questo particolarmente insidiose per gli interpreti: il rischio di scivolare in un Sprechgesang fin troppo monocorde è sempre in agguato. Viene però scongiurato dalla grande capacità espressiva posseduta da tutti, senza mai conoscere cedimenti: quattro splendidi attori e, nel caso di Beckett, è la cosa più importante.

Giulia Vannoni