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Bardeggia e le vie del Sacro

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In ogni formella, in quel doversi attenere a perimetri avari di spazio, spesso relegata in posizioni appartate, vibra l’intensità del supplizio di quel Dio che, da remoto e inaccessibile, si fa prossimo nella carne per divenire vittima. Così, in ogni stazione delle sue Viae Crucis, Guerrino Bardeggia ci racconta qualcosa di sé e, in particolare, del suo rapporto con il Sacro.
Nato a Gabicce Mare nel 1937, Bardeggia si forma come disegnatore, ha successo come ceramista, si sente pittore, e alla pittura lega inscindibilmente la scultura. Trova le sue fonti di ispirazione stilistica, oltre che nei conterranei Licini e Duranti, in Bacon, Sutherland e Munch, ma nemmeno mancano le assonanze con Blake, in particolare con quello dantesco e biblico. Socialista libertario, si misura con tutti i registri, dal più alto al più umile, e la sua produzione, che appare davvero straripante, trae linfa da una creatività oscillante tra concretezza ed astrazione, fondata sulla concezione dell’inconscio come intuizione, forza profetica, ispirazione spirituale.
La poetica di Bardeggia approda ad opere pittoriche che, quasi completamente prive di rappresentazioni figurative, vivono di una pura interiorità pulsante, di tensioni talvolta estreme. Le nebbie cromatiche di questa informalità sono abitate da figure appena accennate, spettri, simboli, segni che lasciano percepire drammi umanissimi ed eterni.
Non v’è opera di Guerrino Bardeggia in cui non prorompa la presenza dell’invisibile.
La stessa Sacra Scrittura non poteva non essere filtrata attraverso una sensibilità particolare e personalissima, frutto di un confronto diretto con il Divino.
La Passione di Cristo, uno dei temi con cui particolarmente il nostro autore si è confrontato, è anche l’argomento del volume Guerrino Bardeggia – Le vie del Sacro, edito dalla Banca di Credito Cooperativo di Gradara e presentato sabato 17 febbraio da Alessandro Giovanardi, curatore del volume, durante la conferenza tenutasi presso il Salone “Snaporaz” di Cattolica. Il libro raccoglie le immagini delle Vie Crucis in terracotta policroma patinata realizzate dall’artista, che ora si trovano in diverse chiese di Romagna e Marche. Le fotografie sono del prezioso Giuseppe Badioli, caro amico di Guerrino, suo storico sostenitore e da sempre promotore degli studi sulla sua opera. Per espressa volontà dell’autore stesso le sue stazioni non sono accompagnate da titoli, didascalie o commenti, intendendo così lasciare la parola esclusivamente alle immagini e al pathos che da esse deriva.
In Bardeggia il senso del Sacro vive soprattutto della kenosis, “svuotamento”: quel farsi umile del Divino che consente tanto l’incarnazione quanto il lasciarsi apparentemente annichilire per farsi obbediente fino alla morte, e alla morte in Croce. Ed il senso della morte è così alto e così alta è la compassione, proprio nel senso etimologico del cum patior, ovvero del “sentire insieme”, che la passione del Cristo è introiettata in modo tale che dal profondo ne scaturiscano le immagini, come momenti di un intimo travaglio che emergono dall’animo. Coerenti cifre stilistiche di tale approccio sono i colori squillanti, il tratto crudo, il segno talvolta graffiante e talvolta evanescente, spesso d’una corporeità impietosa. Muovendosi con maestria tra ossimori e paradossi, l’artista, piuttosto che esporre un racconto, tratteggia le istantanee di un dramma con linguaggio al contempo feroce e delicato, espressionista e certamente moderno. Non rinuncia a niente della carnalità del dolore, in nulla stempera l’atrocità della Crocefissione, ne esalta, anzi, la tragicità, poiché è nella sofferenza che il Sacrificio diviene eloquente. In questo si rintraccia senz’altro una piena adesione a quanto indicato da Papa Pio XII nell’enciclica Mediator Dei, con cui raccomandava che l’immolazione dell’Agnello rimanesse centrale in ambito liturgico ed iconografico, con tutti i dovuti rimandi a quel criminoso spargimento di sangue.
Scomparso nel 2004, Guerrino Bardeggia rimane sempre coerente con il suo cocciuto isolarsi dalla cultura dominante e dalla critica; anche affrontando la lunga malattia che lascia presagire l’ineluttabile, non rinuncia a quell’operosità e a quell’estro ostinato che gli permettono di lavorare fino all’ultimo giorno. Oggi molte delle sue opere, dopo essere state esposte in molteplici prestigiosi contesti, sono conservate in pregevoli collezioni private, musei, pinacoteche e spazi pubblici, a destinazione sia civile che religiosa.

Filippo Mancini