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Amor vincit omnia

Carlo Vistoli, interprete di Orfeo, Emőke Baráth, interprete di Amore - ph Fabrizio Sansoni

 

Al Teatro dell’Opera di Roma il regista Robert Carsen ha firmato il nuovo e bellissimo allestimento dell’Orfeo ed Euridice di Gluck    

ROMA, 19 marzo 2019 – Armonia dei suoni e delle forme. Se, con Orfeo ed Euridice, Christoph Willibald Gluck (e prima di lui altri compositori) hanno reso immortale il mito del divino cantore, il regista Robert Carsen ha saputo distillarlo in immagini di poetica intensità, capaci di esaltare i profondi significati di una musica ricca di splendide pagine.

Orfeo ed Euridice, una scena dello spettacolo – ph Fabrizio Sansoni

Il nuovo spettacolo andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma, frutto di una coproduzione con Parigi e Toronto, pone in primo piano l’essenzialità dei gesti d’amore così come quelli della disperazione. E, dando rilievo agli aspetti rituali, li inserisce poi in una dimensione collettiva: sia del dolore – l’accompagnamento dei coristi al feretro di Euridice, con la disperazione di Orfeo sullo sfondo, è di toccante realismo – sia della gioia, che si traduce in un girotondo finale colmo di tenerezza, con i due sposi usciti dall’Ade circondati da tante coppie per celebrare coralmente la vittoria dell’amore. Carsen gioca tutto sulla gestualità, curatissima, dei tre personaggi: dai piccoli dettagli delle posture al mutamento d’abito di Amore, che nel primo atto si presenta in vesti maschili e nel terzo femminili, quasi a sancire una solidarietà con lo strazio di Euridice, destinata a morire per una seconda volta.

Come in tanti altri spettacoli del regista canadese, la cornice visiva – in bianco e nero – è  assolutamente spoglia e non cambia nel corso dei tre atti. Quasi fosse una roccia frantumata, la nuda terra che ricopre il palcoscenico ci ricorda dove avrà termine il nostro ultimo viaggio (le anime dei morti quando si risvegliano, emergendo dai sudari che le avvolgono, sembrano prendere forma dal terreno) e, allo stesso tempo, rimanda a un altrove dal profondo significato archetipico. A questo elemento primordiale, si aggiunge il fuoco: brucia in suggestive ciotole, simbolo di quell’amore che continuerà ad ardere pure nell’oltretomba. Firma le scene Tobias Hoheisel, autore pure dei costumi: abiti rigorosamente semplici, neri e moderni, come si addice a una rivisitazione del mito che, del suo, sarebbe già destinato a travalicare il tempo. Un contributo fondamentale viene poi dalle luci, splendide, e capaci di emanare persino bagliori violacei. Il risultato è che per un’ora e mezza si rimane immersi e catturati da questa ‘azione teatrale in tre atti’ – proposta senza intervalli – intraprendendo un viaggio interiore in cui il tempo appare sospeso.

Una lettura visiva così sobria e meditativa lasciava ampio spazio alla musica. Peccato che il direttore Gianluca Capuano non abbia saputo approfittarne e, seppure molto ben corrisposto dall’orchestra romana, ha appiattito le sonorità sottraendo quelle valenze drammatiche ed emotive connaturate a un’opera, che – nella versione viennese del 1762, la prima, scarna ed essenziale – rappresentò un’importante svolta nella riforma del melodramma in seguito elaborata da Gluck. Molto più ricco di sfumature il contributo del coro, assai ben preparato da Roberto Gabbiani e concepito da Carsen come un insieme di splendidi attori.

Protagonista assoluto il controtenore Carlo Vistoli. Spesso il ruolo di Orfeo viene affidato a un contralto, ma l’adesione emotiva di chi ascolta è ben diversa di fronte a una figura maschile, tanto più che Vistoli è straordinariamente espressivo, grazie a una voce morbida e a un’emissione del tutto naturale (diventa allora secondario che si avvertano talvolta stimbrature nella zona grave). Al suo fianco, Mariangela Sicilia è stata un’ottima Euridice, in grado di esprimere con dolorosa intensità tutto il suo sconforto per l’apparente disattenzione che le manifesta il marito Orfeo, obbligato a non guardarla durante il loro viaggio extraterreno. Una volta tanto, Amore non è il solito ragazzino efebico, ma un vero personaggio con una fisionomia ben definita, cui il soprano ungherese Emöke Baráth ha saputo imprimere accenti di profonda empatia per i due innamorati.

Un’emozionante esperienza visiva che, con la sua spoglia cornice, aiuta a cogliere l’eternità del mito e a scandagliarne le ragioni. Valide anche per il nostro tempo.

Giulia Vannoni