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“Amerai!”: è una promessa

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Amerai!”: non un comando, ma una promessa. È questo il titolo dell’omelia del Vescovo Lambiasi per la celebrazione del 27 settembre, festa di San Vincenzo de Paoli fondatore della congregazione delle Figlie della Carità, che segna tradizionalmente l’inizio dell’anno pastorale della Caritas. Quest’anno vi sono state tre coincidenze straordinarie: il quarto centenario della fondazione, i 60 anni di vita religiosa di suor Angela (una della quattro Figlie della Carità in servizio alla Caritas) e i 40 anni della Caritas diocesana. Alla celebrazione hanno partecipato oltre 100 persone tra operatori, volontari e amici.

Il Vescovo nella sua omelia partendo dai due comandamenti, centro della nostra fede, «Amerai Dio con tutto il cuore. Amerai il prossimo tuo come te stesso»<+testo_band>, ha ricordato che la novità di Gesù si riscontra nell’averne fatto un solo comandamento. “Amerai. Ne segue che i due comandamenti non possono essere separati né semplicemente sovrapposti. Né divisi né confusi: quando ciò è avvenuto, ne sono cominciati i nostri mali. I due ‘amori’ vanno piuttosto incrociati, proprio come due legni che per formare una croce non devono essere congiunti in parallelo né disgiunti l’uno dall’altro. Il palo verticale dice l’amore di Dio, senza il quale il palo orizzontale non si sorregge. Ma d’altra parte non si può amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede (1Gv 4,20). San Vincenzo insegna: «Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato la preghiera. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Dio, ossia un’opera di Dio per farne un’altra. Se lasciate la preghiera per assistere un povero, sappiate che fare questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. È una grande signora: bisogna fare ciò che comanda»”.

Il Vescovo ha poi richiamato le quattro strade sulle quali la Caritas ha fin qui camminato incoraggiando a continuare il percorso sapendo leggere i segni dei tempi.
“L’albero della nostra Caritas segna 40 giri nel suo tronco, che corrispondono a 40 anni di frutti buoni e benedetti. Ne ricordiamo alcuni: mensa quotidiana per circa 300 persone al giorno; 13 dossier annuali sulla povertà; 363 famiglie sostenute con oltre 81mila prodotti alimentari con l’EmporioRimini; 117 disoccupati assunti con il Fondo per il lavoro; 14 anni di mostre dei presepi dal mondo; una cinquantina di anziani raggiunti con un pranzo quotidiano con il ‘giro-nonni’; uno sportello-carcere ai Casetti di Rimini; circa 200 bambini operati negli ultimi dieci anni con la ‘Operazione Cuore’…
Il già lungo passato della Caritas non è finito, anzi continua a crescere, e il suo futuro è già cominciato… Ho pensato quindi di riprendere quattro percorsi che la nostra Caritas sta perseguendo, per raccomandarvi di continuare ad andare avanti sulla strada di quella che potremmo chiamare la Caritas dalle quattro coniugazioni.

La prima è la coniugazione di carità e giustizia. Rimane fondamentale tenere in costante tensione queste due virtù-sorelle evitando equivoche alternative e coltivando invece un corretto, fecondo rapporto, secondo il forte richiamo del Concilio: «Non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (AA 8). In effetti la carità non va contro la giustizia, ma va oltre. Poiché la giustizia guarda ai diritti del prossimo, la carità guarda ai suoi bisogni. E si impegna a far sì che i bisogni, quando sono autentici, vengano riconosciuti come diritti. Del resto la carità non si può mai ridurre alla beneficenza occasionale: la carità coinvolge e crea un legame, la beneficenza si accontenta di un gesto sporadico. È la dimensione pubblica e politica della carità, che non può mai essere relegata a un ruolo privatistico, ridotta a una saltuaria azione assistenziale o alla pura filantropia. Ma deve essere estesa al vasto mondo delle istituzioni, della politica, dello sviluppo, se non vuole scivolare sul piano inclinato dell’assistenzialismo.

La seconda coniugazione è tra formazione e organizzazione. Una organizzazione senza formazione è come un corpo senz’anima: un gelido, inerte cadavere. Ma una formazione senza organizzazione è, al contrario, come un’anima senza corpo. Anche qui la lezione di Monsieur Vincent è di una stupefacente attualità. Ha pensato fin da subito alla formazione dei futuri pastori, fondando un seminario appositamente per loro. Ma ha pensato anche ad organizzare le sue ‘dame’ riunendole in associazione. Ha dato loro una regola che, secondo gli storici, era «un piccolo capolavoro di organizzazione e di tenerezza», nella quale era previsto tutto. Innanzitutto come servire gli ammalati per amore di Gesù, ma poi come dar loro da mangiare, come accostare la famiglia bisognosa, come e con quale ordine garantire un servizio a rotazione, come procurarsi gli aiuti necessari e tenere la contabilità, come utilizzare intelligentemente il tempo disponibile…

La terza coniugazione riguarda la misericordia corporale e quella spirituale. Seguendo l’esempio di Gesù, il vero buon Samaritano, l’amore preferenziale per i poveri non si può fermare alle povertà materiali dei nostri fratelli. Occorre rispondere anche alle povertà umane più profonde e radicali, che toccano lo spirito dell’uomo e il suo assoluto bisogno di salvezza. E che oggi, in un paese come il nostro, sono anche socialmente le più diffuse e non di rado le più gravi. Espressioni concrete di tale opere possono essere, ad esempio, l’aiuto dato a chi ricerca la verità e a chi ha bisogno di riscoprire il volto di Dio e del suo amore; la presentazione di valori autentici a chi li ha smarriti; la vicinanza e la condivisione di chi soffre di solitudine e di angoscia perché ritrovi un senso alla vita e una speranza per il suo futuro prossimo e per l’eterno presente oltre la morte.

La quarta coniugazione scorre tra la cultura della carità e la carità della cultura. Non è un gioco di parole né questione di piatta retorica. È, né più né meno, questione di vita o di morte. Oggi la Chiesa è chiamata a promuovere una cultura che si prefigge «l’inclusione sociale dei poveri» perché essi «hanno un posto privilegiato» nel popolo di Dio (EG 186-216). E proprio perché «non amiamo a parole ma con i fatti» il Papa ha istituito la Giornata mondiale del poveri che si celebrerà per la prima volta il 19 novembre prossimo. La cultura della carità è anche sinonimo della cultura di una vita, che va difesa sempre. Sia che si tratti di salvare l’esistenza di un bambino nel grembo materno o di un malato grave. Sia che si tratti di uomo o una donna venduti da un trafficante di carne umana. Ma questa cultura della carità per essere efficace si deve accoppiare a una carità della cultura. La testimonianza della carità va ’pensata in grande’ e articolata nelle sue molteplici e correlate dimensioni. Investe l’obiettivo della pace, della solidarietà tra le nazioni, dell’unità dei popoli a livello planetario. Si estende alle sterminate moltitudini di affamati, di mendicanti, di senza tetto, senza assistenza medica, senza speranza di un futuro migliore. A sua volta l’impegno per la custodia del creato rappresenta una urgenza centrale e imprescindibile del nostro tempo. In questo, che papa Francesco ha definito «un cambiamento d’epoca, più che un’epoca di cambiamento», si impone, di conseguenza, un cambiamento di mentalità, non solo per contrastare le gelide correnti inquinate di xenofobia, che purtroppo attraversano anche vari ambienti che pure si definiscono ‘cattolici’. Ma soprattutto per mostrare e dimostrare la bellezza e la vivibilità di una vita che si voglia all’altezza di una umanità degna di questo nome”.